Questioni bibliche Che talento ti ha dato Dio?
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CHE TALENTO TI HA DATO DIO! (?)

(Matteo 25:14-30)

Il titolo di questo articolo è volutamente ambiguo: infatti, a quella che suona come un'esclamazione di meraviglia, segue una doverosa domanda che è rivolta a tutti noi. Lo scopo è attuare una profonda revisione della parabola dei talenti, che deve indurci a una sana introspezione. Ma andiamo con ordine.

Quando leggiamo la parabola dei talenti (Mt 25:14-30), il nostro senso umano di giustizia viene messo a dura prova. È scritto, infatti, che un padrone, in procinto di partire per un viaggio, affidò ai suoi tre servi un diverso numero di talenti (cinque, due e uno), raccomandando loro di farne buon uso. Coloro che avevano ricevuto più talenti furono in grado di farli fruttare, per cui, al suo ritorno, il padrone affidò loro lo stesso numero di talenti con cui avevano iniziato a trafficare. Ma il servo a cui era stato affidato un solo talento fece una buca nel terreno e lo sotterrò; il padrone, irato, gli tolse quell'unico talento e lo diede a chi ne aveva di più, accompagnando il gesto con una sentenza che sembra assurda: "Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha" (Mt 25:29).

Proprio così: non ci fu una seconda possibilità per il malcapitato. Indagheremo più tardi sui motivi per cui quel servo preferì nascondere il proprio talento, e, cosa ancor più incomprensibile, sul perché quel padrone decise di riprendersi il talento e affidarlo a chi ne aveva già tanti. Infatti, nella parabola delle mine, simile a questa (Lu 19:11-27), i presenti fanno notare l'apparente "ingiustizia".

Per adesso, iniziamo a vedere:

1. Cos'è un talento e che valore ha

Purtroppo, del talento abbiamo ancora una concezione troppo lontana dalla realtà biblica, che, a tratti, rasenta la mondanità. Quando qualcuno brilla in un certo campo, diciamo che "ha talento", nel senso di "capacità". Sono di gran moda, alla tv, i cosiddetti "talent show", una vera e propria gara di talenti, che vengono confrontati e misurati senza pietà. Ma tutto questo non corrisponde all'idea biblica di "talento".

Non solo: è diffusa l'idea che il talento fosse una moneta in uso nell'antichità, e che "un solo talento" corrispondesse a una misera monetina di poco valore. Nulla potrebbe essere più falso.

Innanzitutto, il talento attico (τό τάλαντον) era un'unità di misura della massa, quantificabile in un peso, precisamente il peso di una quantità di argento (infatti, nella parabola, il padrone definisce il talento anche con il termine τά αρϒυρία = "l'argento"). Esso valeva circa 60 mine, cioè più di 34 chili di argento, che corrispondevano a 30 anni di lavoro di un operaio! Ma, al tempo di Gesù, il valore del talento in uso presso gli Ebrei si stabilizzò intorno ai 59 Kg, cioè quasi il doppio. In una parola: un capitale!

Adesso ci è più chiara la parabola del servo spietato, (Mt 18:21-35), dove un padrone condona a un servo un debito di ben 10.000 talenti, ma poi quest'ultimo si mostra senza pietà per un debito contratto da un suo sottoposto di soli 100 denari: quanto grande è il debito che avevamo con Dio, che Egli ci ha condonato, rispetto al quale le offese degli uomini non valgono quasi nulla!

2. Come possiamo interpretare spiritualmente il concetto di "talento"

Torniamo alla nostra parabola. Nella sua infinita misericordia, Dio ha distribuito a ciascuno dei Suoi figli una enorme misura di grazia, dal valore incalcolabile, che costituisce un potenziale ricchissimo per conquistare nuovi territori del Suo Regno. È importante sottolineare tre cose.

a. Innanzitutto, nessuno dei servi della parabola viene elogiato dal padrone per le proprie doti, ma perché ha accettato di mettersi in gioco per trafficare i talenti. Non è una questione di competenze: il talento include la volontà, piuttosto che la capacità, di mettere a frutto i doni della multiforme grazia di Dio, che sono elencati dall'apostolo Paolo: "Vi sono poi diversità di carismi (=doni provenienti dalla grazia), ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune (1 Co 12:4-7).

b. La competenza in sé non può essere definita "talento" se non è una "manifestazione particolare dello Spirito", come abbiamo appena letto in 1 Corinzi. Dio non chiama professionisti, o esperti del settore, a curare i Suoi affari, ma gente comune. Mosè, Davide, Paolo, Filippo, Giovanni: erano persone come noi, con i loro limiti, che fecero grandi cose per lo Spirito di Dio.

Evangelizzare, predicare, insegnare, curare, esortare, adorare, sostenere, guarire... senza la direzione dello Spirito Santo, non avrebbero alcuna efficacia. Viceversa, non c'è alcuna limitazione umana che lo Spirito Santo non possa aggirare, per metterci in condizione di investire i nostri talenti (come fu per la balbuzie di Mosè, la spina nella carne di Paolo, o il carattere impulsivo di Pietro). C'è solo un aspetto che può impedire l'investimento del talento, e ne parleremo al punto successivo.

c. Nel passo che abbiamo esaminato sopra, in cui Paolo nomina i doni dello Spirito, viene ribadito che essi sono "per l'utilità comune" (1 Co 12:4-7). Il talento deve essere messo a disposizione della Chiesa, o di quanti possono trarne beneficio. Ne deriviamo che il talento deve essere investito nell'opera di Dio, e non nel mondo o nel soddisfacimento del proprio io!

Questo significa volersi disporre ad essere "canali di benedizione" in favore di altri, piuttosto che presentarsi come detentori privilegiati di un qualche "fuoco sacro". Significa prendere ciò che Dio ha dato per poterlo donare di nuovo. Significa, in altre parole, rinunciare a sé stessi. Chi non è disponibile ad accettare queste condizioni, rinnegando ogni giorno le esigenze carnali del proprio "io", prima o poi si scoraggerà e si tirerà indietro.

d. Dio si aspetta che il frutto sia proporzionato al valore del talento ricevuto. I due servi che avevano trafficato furono lodati, perché avevano conseguito i risultati attesi, anche se diversi tra loro. Questo concetto è ribadito anche altrove: "A chiunque è stato dato molto, sarà domandato molto; e a chi molto è stato affidato, molto più sarà richiesto" (Lu 12:48).

Ricapitolando, non c'è niente di lodevole, nel talento in sé e per sé, se questo non viene investito nel Regno, con umiltà, al punto da produrre un frutto di gloria proporzionato alla dotazione di partenza.

Ma torniamo al servo che ha nascosto il suo talento sottoterra, e sciogliamo altri nodi.

3. Perché il servo preferisce rinunciare a un patrimonio così grande

La spiegazione è nelle sue stesse parole: "Signore, io sapevo che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; eccoti il tuo" (Mt 25:24-25). Il servo conosce la natura di Dio, e sa che Egli può fare ciò che vuole, persino "suscitare figli di Abramo dalle pietre (Mt 3:9). Dio non ha bisogno dell'aiuto dell'uomo per portare anime a ravvedimento, e potrebbe fare anche tutto da solo. A questo punto, il servo pensa bene di salvare la propria vita, perché sa che lavorare nel campo di Dio comporta sacrificio, rinuncia e persecuzione. Ma non ha fatto i conti con l'avvertimento del Signore che "chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà" (Mc 8:34-35).

4. Perché il padrone non accetta le giustificazioni del servo

Gli aggettivi che usa il padrone per descrivere il servo inadempiente sono "malvagio" e "indolente". Pigrizia e malvagità vanno a braccetto, perché la pigrizia è un peccato come tanti.

Leggendo la parabola superficialmente, potremmo essere còlti da pietà verso il servo, e potremmo cadere nell'errore di giudicare il padrone troppo severo. Ma la realtà è un'altra.

a. Il servo non sembra avere ripensamenti circa il proprio atteggiamento. Ha nascosto il suo talento per tutta la vita e non ha mai più riaperto il capitolo. Magari ha visto tanto bisogno intorno a sé ma, pur potendo intervenire, si è lasciato prendere dall'indifferenza.

Eppure, dalle parole del padrone scopriamo che il servo sapeva di avere un'altra opzione: affidare il talento ai banchieri, che lo avrebbero fatto fruttare al suo posto.

b. Chi sono questi banchieri? Il termine "banchiere" (= τραπεζίτης) potrebbe far pensare a una statica figura "da scrivania". In realtà, la Parola è molto precisa. Il banchiere vero e proprio, infatti, non va confuso con il "bancario" (che si occupa di assistere il cliente), ma si identifica col proprietario della banca, che detiene i capitali e a cui le persone affidano con fiducia il proprio patrimonio affinché maturi interessi. Il banchiere, inoltre, si prende una grossa responsabilità, perché da lui dipende la riuscita o meno dell'investimento.

E chi altri si occupa di gestire praticamente le ricchezze dei credenti, se non i ministri della Chiesa, a vario titolo, con i rispettivi ministeri? Si palesa un aspetto molto interessante, che è la sottomissione del talento all'autorità delegata da Dio (il che, ovviamente, presuppone che i ministri siano a loro volta sottoposti all'autorità e, in generale, conformi alle Scritture). Il padrone sta dicendo al servo: "Non hai un ministero specifico? Non importa, ci pensano coloro che ne hanno già uno, e sapranno cosa fare del tuo potenziale. Da solo non basterebbe, ma nelle mani giuste può fruttificare. Non solo: anche il ministero in questione si arricchirà, e, così, ciascuno avrà ricevuto la propria parte".

Dal testo emerge che il servo sapeva, ma non ha voluto. Sicuramente per paura, come è scritto. Ma magari anche per la scarsa attitudine ad affidarsi all'autorità. Oppure per l'orgoglio di fornire il proprio contributo. O, ancora, per l'impazienza di aspettare i tempi opportuni. Comprendiamo quanto il problema sia attuale?

5. Perché il padrone dà il talento del servo indolente a chi ne aveva di più

Chi possiede un'azienda e vuole vederla crescere, affida i vari incarichi a persone di cui ha già comprovato l'affidabilità. "Provare gli spiriti" è un'indicazione che ci viene proprio dalla Parola (1 Gv 4:1). Nessuno darebbe una chance a chi si è sempre mostrato disinteressato al lavoro. Ecco perché, nell'interesse di veder crescere l'opera, Dio affida i Suoi affari a chi si è mostrato volenteroso, fedele e perseverante, prima che competente. Ed ecco perché, spesso, nelle diverse realtà ecclesiali pochi fedeli svolgono la maggior parte dei servizi, come pure accade che tanti non riescano a capirne il motivo!

Non abbiamo un Dio buonista ed ugualitario. Abbiamo un Dio giusto e santo. A chi ha molto (in termini di frutto, derivante dalla cooperazione della volontà con l'opera della grazia- Ga 5:22), sarà dato ancora (in termini di talenti). Ma a chi non ha (frutto), sarà tolto anche l'unico talento. Troppo spesso ci si applica ad affinare il talento (inteso come competenza), attraverso corsi e stage, piuttosto che lavorare sul frutto dello Spirito in noi, l'unico che può metterci in condizione di spendere correttamente il talento!

Riusciamo ad immaginare quel giorno in cui ci sarà chiesto conto dei nostri talenti? Riusciamo ad immaginare l'onta della disapprovazione, se ancora una volta, saremo stati sordi al Suo richiamo? Non è così difficile servire il Signore, se ci disponiamo a recepire attentamente le Sue indicazioni.

Che ognuno di noi possa riflettere! Dio ci benedica.

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