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RIFLESSIONI BIBLICHE


QUANDO TUTTO SEMBRA ANDARE STORTO

Ci sono momenti, nella vita, che sembra che Dio ci stia totalmente ignorando, o, addirittura, che stia facendo l'opposto di quel che vorremmo. Ci sentiamo quasi boicottati dall'Onnipotente nelle nostre aspirazioni più elementari, e finiamo nel vortice della frustrazione.

Giona era un uomo riottoso alla voce di Dio. Attenzione: non abbiamo detto che non sapeva distinguere la voce di Dio, ma che cercava con tutte le sue forze di ignorarla. Mentre Dio aveva in mente un piano glorioso sia per il popolo di Ninive, che per la vita del profeta, l'uomo Giona cercava di convincere Dio a cambiare idea. Perché? Perché l'uomo Giona non accettava tutto questo, e c'è una ragione ben precisa.

La storia di Giona è piuttosto nota: egli venne chiamato da Dio a profetizzare distruzione ai Niniviti, ma si rifiutò di andare, e fuggì in mare, in direzione opposta. Dio, però, mandò a monte i suoi piani, facendolo inghiottire da un grosso pesce, nel quale rimase tre giorni e tre notti, prima di essere "risputato" a riva. E, solo in seguito a questa esperienza così tormentata, Giona si arrese e si decise a obbedire (Giona 1;3).

Non tutti sanno che la Bibbia ci fa incontrare Giona in un contesto molto diverso da questo: la corte del re Geroboamo, di cui era collaboratore apprezzato. Infatti, il re era riuscito a ristabilire i confini d'Israele "dall'ingresso di Hamath al mare dell'Arabah, secondo la parola dell'Eterno, il DIO d'Israele, pronunciata per mezzo del profeta Giona figlio di Amittai, che era di Gath-Hefer", (2Re 14:25). Che si tratti dello stesso Giona, ci è dato sapere grazie al fatto che anche nell'omonimo libro si parla di lui come "figlio d'Amittai".

Alla corte del re, possiamo immaginare che il profeta se la passasse bene. Aveva stima, onori e comodità, non solo perché era il braccio destro del re, ma soprattutto perché una sua profezia aveva consentito l'espansione del regno. Ma, un giorno, Dio parlò a Giona dandogli un incarico "scomodo": andare a Ninive per profetizzare la distruzione della città ai suoi abitanti, gente piena di peccato. Si trattava di uscire fuori dalla "zona confort" per fare un salto verso l'ignoto.

Si potrebbe pensare che Giona avesse qualche timore ad affrontare i Niniviti perché si trattava di un popolo senza Dio e che, quindi, avrebbe potuto ucciderlo. In fondo, molti profeti avevano fatto quella fine. Invece, le preoccupazioni di Giona erano altre.

Inaspettatamente, alla predicazione di Giona, il re di Ninive e i suoi abitanti scelsero di dare ascolto al profeta, si umiliarono davanti a Dio e si pentirono: a quel punto, Dio decise di risparmiarli. Ora penserai che Giona sarà stato contento di tutto questo. Ma non è così.

"Ma questo dispiacque molto a Giona, che si adirò. Così egli pregò l'Eterno, dicendo: «Deh, o Eterno, non era forse questo che dicevo quand'ero ancora nel mio paese? Per questo sono fuggito in precedenza a Tarsish, perché sapevo che sei un Dio misericordioso e pieno di compassione, lento all'ira e di gran benignità, e che ti penti del male minacciato. Or dunque, o Eterno, ti prego, toglimi la vita, perché per me è meglio morire che vivere» (Giona 4:1-3).

Incredibilmente, Giona ci rimase male. Perché? Perché la sua parola profetica non era stata mandata a effetto. Vediamo che Dio cerca di farlo ragionare come si fa con un bambino, ma inutilmente. Giona sapeva che Dio può essere mosso a pietà da un serio ravvedimento, ma, anziché gioire per la salvezza di un popolo, iniziò a covare amarezza per sé stesso. Cosa avrebbero detto i suoi? Il profeta della vittoria tornava sconfitto. La città del peccato si era salvata. Che disdetta! Ebbene sì: Giona sentiva intaccata la propria reputazione, e non si preoccupava minimamente del destino delle anime di quella città. Ma Dio decise di formare il povero Giona, lavorando sui lati oscuri del suo cuore.

Se pensiamo che tutto questo non ci riguardi, siamo in errore. A volte il servizio che offriamo all'Eterno è solo un pretesto per servire noi stessi e il nostro desiderio di approvazione o compiacimento, ma non ha nulla a che fare con la benedizione altrui; è un servizio che non si radica sul terreno di un cuore compassionevole, modellato su quello del Padre. Ed Egli ci porterà in tutti i modi a comprendere che un simile servizio, scollegato dalla passione per le anime, non Gli interessa. Egli vuole che noi Lo serviamo come Gesù ha servito l'umanità: "Il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire" (Mc 10:35); e non è un caso che Gesù si sia paragonato a Giona per rappresentare Sé stesso.

L'esperienza della clausura nel ventre del pesce dovette essere per Giona qualcosa di opprimente. L'insolito luogo della prigionia scelto per lui da Dio ha un perché: il pesce nel mare rappresenta l'anima da salvare. Gesù è sceso nell'abisso per salvare anime, in quei tre giorni che scomparve dalla terra. Ha scelto di lasciare il luogo della gloria ed è sceso nel luogo della morte. Giona dovette provare la sensazione della morte, della prigionia e dell'oppressione per capire quale fosse lo stato delle anime a cui andava a predicare.

Se ti senti deluso perché i tuoi sforzi non corrispondono al risultato che ti aspettavi e i progressi delle anime non ti fanno sentire benedetto, dovresti allarmarti. Sono gli stessi sentimenti del fratello del figlio prodigo, che non riusciva a gioire per il suo ritorno e ravvedimento; si sentiva addirittura messo in secondo piano, come se il suo lavoro in quella casa non fosse stato sufficientemente considerato, cosa che non corrispondeva alla realtà. Il fatto era che lui non riusciva neanche ad apprezzare tutto il bene che c'era nello stare a contatto quotidiano col Padre e nel non aver sperperato i Suoi beni (Lc 15:11-32).

Le disavventure di Giona furono inquadrate dal profeta come una forma di persecuzione da parte di Dio nei suoi confronti, ma l'intento del Padre era quello di insegnargli la compassione. Fino alla fine Giona contenderà con l'Eterno, ma Egli non smetterà di provare a farlo ragionare. Può essere che, in questo momento, ci troviamo nella stessa situazione; Dio ce l'ha con noi? No: ci sta formando all'immagine di Cristo.

Alla fine del libro, vediamo che Giona si costruì una capanna fuori città per farsi ombra e vi si accampò: per quanto sia assurdo, sperava che, alla fine, la distruzione sarebbe arrivata comunque (Giona 4:5). A quel punto, Dio fece crescere su di lui una pianta "per fare ombra al suo capo e liberarlo dal suo male" (Giona 4.6). Evidentemente, la capanna costruita dal profeta non bastava a fare ombra: Dio provvide qualcosa di meglio, a testimonianza della Sua infinita misericordia. Ma lo scopo non era semplicemente fare ombra: era "liberarlo dal suo male". Lo scopo di Dio non è darci una rinfrescata con una benedizione speciale, ma liberarci dal peccato e redimerci. È il lavoro del vasaio con l'argilla: liberarci dal cuore di pietra per darci un cuore di carne.

Giona provò un grande gioia alla vista di quella pianta, ma l'indomani Dio stesso mandò un verme a danneggiarla e farla seccare. A quel punto, il caldo divenne insopportabile e Giona chiese di nuovo di morire (Giona 4.8). La risposta di Dio è proverbiale: "Dio disse a Giona: «Fai bene a irritarti così a causa del ricino?» Egli rispose: «Sì, faccio bene a irritarmi così, fino a desiderare la morte». Il SIGNORE disse: «Tu hai pietà del ricino per il quale non ti sei affaticato, che tu non hai fatto crescere, che è nato in una notte e in una notte è perito; e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame?» (Giona 4:9-11).

La verità è che Dio può ogni cosa, ma non è intenzionato ad assecondare le nostre velleità. In quel momento, Giona si era posizionato fuori dalla volontà di Dio: Dio aveva assolto la città, ma Giona continuava a sperare nella sua caduta, perché voleva portare a casa il risultato. Coltivava sentimenti assolutamente negativi, ma pretendeva che Dio avesse cura di lui, come se fosse un suo diritto, nonostante fosse così misero da desiderare la morte di tutta quella gente. Il peccato di Giona era peggiore di quello dei Niniviti, che, a differenza sua, erano privi di discernimento.

Qualcosa di molto simile capitò a Naaman il Siro: egli cercava guarigione dalla lebbra, ma Dio voleva innanzitutto liberarlo dall'orgoglio, e lo mise in condizione di umiliarsi; Naaman fu guarito innanzitutto dalla propria durezza (2Re 5). È Dio che stabilisce le priorità per la nostra vita: Lui solo sa di cosa abbiamo realmente bisogno.

Tornando a Giona, è incoraggiante vedere come Dio continui a dialogare con dolcezza con il Suo servo, nonostante la sua ottusità. Piuttosto che rimproverarlo aspramente, preferisce farlo riflettere ponendogli delle domande: è giusto quello che stai facendo? perché non provi a metterti nei miei panni?

Molte volte i nostri pensieri non sono allineati con quelli di Dio: mentre noi ci aspettiamo che Lui faccia qualcosa che appaghi il nostro io, Lui è interessato ad abbatterlo. Il nostro premio è più che onori e gloria su questa terra: è l'eternità con Lui. La nostra felicità dipende da quanto abbiamo realizzato tutto ciò.

Allora non sentirti più perseguitato da Dio. Non attribuire più le tue disavventure e i tuoi disagi a una bilancia falsa. Mettiti in comunione con Lui, e prova ad ascoltare la Sua voce, che ti chiede di continuo: cosa stai facendo? quando metterai da parte quella forma di rancore che non ti fa essere libero? quando imparerai a fidarti pienamente di me?

"Se dunque siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù, dove Cristo è seduto alla destra di Dio. Aspirate alle cose di lassù, non a quelle che sono sulla terra; poiché voi moriste e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo, la vita nostra, sarà manifestato, allora anche voi sarete con lui manifestati in gloria" (Col 1:1-3).

Dio ci benedica!  


PECORA, MONETA O FIGLIO? CREDENTI IN CRISI D'IDENTITA'...

La Chiesa è la creazione geniale di Cristo per formare il credente a Sua immagine. Si impara la costanza, il perdono; si cresce nel servizio, e tanto altro. Troppe volte, però, quest'argilla di cui siamo fatti si sfascia sotto le mani del Vasaio e rifiuta quel prezioso lavoro di modellazione che è fondamentale per il nostro perfezionamento!

E allora iniziano le "transumanze". Anime erranti scappano da una comunità all'altra in cerca di ristoro, che sembra non arrivare mai. In fondo al cuore, l'amarezza di "non essere stati cercati da nessuno" (lo diciamo con rammarico, chiaramente).

Quasi sempre, il capro espiatorio di queste situazioni incresciose diventa il conduttore della comunità, reo di "non aver fatto abbastanza". Perché Gesù avrebbe fatto di meglio, e quindi i Suoi servi devono essere all'altezza! Ma siamo sicuri che la Parola ci supporti in queste deduzioni?

Chi crede che il pastore debba sempre inseguire le "pecore" dovrebbe leggere attentamente le tre "parabole dello smarrimento" contenute in Luca 15: sorprendentemente, in questo capitolo Gesù passa in rassegna tutte le casistiche relative all'argomento "fughe e incomprensioni".

Stupisce la minuziosità di dettagli con cui Gesù ci istruisce, attraverso le tre iconiche parabole della pecorella smarrita, delle monete perdute e del figliuol prodigo. Ma andiamo con ordine; leggiamole, e poi esaminiamo tutti e tre i casi.

PECORA SMARRITA. Tutti i pubblicani e i peccatori si avvicinavano a lui per ascoltarlo. Ma i farisei e gli scribi mormoravano, dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, avendo cento pecore, se ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e non va dietro a quella perduta finché non la ritrova? E, trovatala, tutto allegro se la mette sulle spalle; e giunto a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: "Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la mia pecora che era perduta". Vi dico che, allo stesso modo, ci sarà più gioia in cielo per un solo peccatore che si ravvede che per novantanove giusti che non hanno bisogno di ravvedimento.

DRAMMA PERDUTA. «Oppure, qual è la donna che se ha dieci dramme e ne perde una, non accende un lume e non spazza la casa e non cerca con cura finché non la ritrova? Quando l'ha trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: "Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta". Così, vi dico, v'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si ravvede».

FIGLIO PRODIGO.Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane di loro disse al padre: "Padre, dammi la parte dei beni che mi spetta". Ed egli divise fra loro i beni. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, messa insieme ogni cosa, partì per un paese lontano e vi sperperò i suoi beni, vivendo dissolutamente. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una gran carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora si mise con uno degli abitanti di quel paese, il quale lo mandò nei suoi campi a pascolare i maiali. Ed egli avrebbe voluto sfamarsi con i baccelli che i maiali mangiavano, ma nessuno gliene dava. Allora, rientrato in sé, disse: "Quanti servi di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Io mi alzerò e andrò da mio padre, e gli dirò: 'Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi". Egli dunque si alzò e tornò da suo padre. Ma mentre egli era ancora lontano, suo padre lo vide e ne ebbe compassione; corse, gli si gettò al collo e lo baciò. E il figlio gli disse: "Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio". Ma il padre disse ai suoi servi: "Presto, portate qui la veste più bella e rivestitelo, mettetegli un anello al dito e dei calzari ai piedi; portate fuori il vitello ingrassato, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato". E si misero a fare gran festa. Or il figlio maggiore si trovava nei campi, e mentre tornava, come fu vicino a casa, udì la musica e le danze. Chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa succedesse. Quello gli disse: "È tornato tuo fratello e tuo padre ha ammazzato il vitello ingrassato, perché lo ha riavuto sano e salvo". Egli si adirò e non volle entrare; allora suo padre uscì e lo pregava di entrare. Ma egli rispose al padre: "Ecco, da tanti anni ti servo e non ho mai trasgredito un tuo comando; a me però non hai mai dato neppure un capretto per far festa con i miei amici; ma quando è venuto questo tuo figlio che ha sperperato i tuoi beni con le prostitute, tu hai ammazzato per lui il vitello ingrassato". Il padre gli disse: "Figliolo, tu sei sempre con me e ogni cosa mia è tua; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato"».

a. La pecora smarrita. Quando si parla di anime che si allontanano, si tende a identificarle con le "pecore smarrite". Il più delle volte, sono gli stessi credenti che fanno questa esperienza a definirsi tali: ecco perché ritengono di "dover essere cercati".

Ma attenzione: leggendo la parabola, scopriamo che Gesù, quando parla dell'unica pecora smarrita che il pastore va a cercare, lasciando le altre novantanove, in questo caso allude al perduto, e non al credente che si allontana per altri motivi. La conferma è nel fatto che Gesù racconta la parabola perché "i farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro»" (Lc 15:2).

Gesù critica l'indifferenza dei capi religiosi che snobbano i cosiddetti "peccatori", e rappresenta sé stesso come l'unico, vero Buon Pastore dell'umanità. Non è un caso che la pecora si perda all'esterno: è un riferimento al cammino delle anime in questo mondo (Noi tutti come pecore eravamo erranti, Is 53:6). E Gesù è colui che inizia personalmente un'opera di salvezza, dopo aver messo al sicuro, in un luogo "deserto", cioè lontano dal mondo, le altre che già lo seguono ("Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l'avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io", Gv 14:2-3).

Esistono almeno un altro paio di argomenti a supporto del fatto che le pecore smarrite siano i perduti di questo mondo:

1. Il pastore va a cercare personalmente la pecora. Perché? Perché nessuno può salvarsi da sé stesso o per le proprie opere. "Poiché chiunque avrà osservato tutta la legge, e avrà fallito in un solo punto, si rende colpevole su tutti i punti" (Gc 2:10). "Infatti, tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio" (Rm.3:23). Ma "il Figlio dell'uomo è venuto per salvare ciò che era perduto" (Lc 19:10).

2. Si accenna al fatto che gli angeli "fanno festa in cielo per un solo peccatore che si converte"(Lc 15:7). Si parla di conversione, non di un generico ritorno in chiesa dopo un allontanamento!

Le pecore smarrite a cui si riferisce questa parabola sono tutti quegli uomini che ancora non conoscono Cristo, ma verso i quali Dio ha già predisposto una strategia di salvezza, che parte dalla Sua iniziativa e passa per la croce.

b. La dramma (moneta) perduta. La situazione è simile, ma non uguale. Stavolta l'artefice dell'iniziativa di recupero del perduto è una donna, e lo spazio rappresentato è una casa. Un caso? Certamente no! Come sappiamo, infatti, nelle Scritture la donna è figura della Chiesa (si veda la donna incinta di Apocalisse o la Shulamita del Cantico dei Cantici), e la casa è l'insieme dei credenti che la compongono ("Accostandovi a Lui, pietra vivente, rifiutata dagli uomini, ma davanti a Dio scelta e preziosa, anche voi, come pietre viventi, siete edificati per formare una casa spirituale, un sacerdozio santo", 1Pt 2:4).

Pertanto, il riferimento è ai perduti che si trovano nella casa del Signore, e non, genericamente, ai perduti di questo mondo. La prova è il paragone con la moneta: la moneta è qualcosa che Dio ha dato alla Chiesa, e al singolo credente, affinché possa portare molto frutto (Mt 25:14-30; Lu 19:12-27).

Accade, però, che alcuni, pur partecipando alle riunioni e avendo comunione con i fratelli, non realizzino appieno Cristo, o giacciano nella tiepidezza o nel torpore. Ma, quando la Chiesa decide di agire, quell'anima può ritrovare la vera Via. Si notino le modalità con cui la Chiesa si mette all'opera:

1. Accende un lume. Questo significa che quella comunità inizia ad innalzare la Parola e a far brillare Cristo in mezzo alle tenebre. Nel Luogo Santo del tempio l'unica luce ammessa era quella del candelabro a sette bracci, figura di Cristo: analogamente, la Chiesa deve brillare solo della Sua luce. Se viene dato spazio ad altre (false) luci, i credenti cammineranno nelle tenebre e rischieranno di perdersi, come succede in questa parabola. E questo nonostante si trovino fisicamente in chiesa!

2. Spazza la casa. La comunità inizia a fare pulizia: toglie tutto ciò che non va. Abitudini sbagliate, pigrizia, mondanità, sono solo alcuni "rifiuti" che possono accumularsi nella vita del credente e ostacolarne la crescita. Ma, quando un gruppo di credenti si sveglia, capisce che tutto ciò deve essere eliminato. E solo allora ritrova ciò che si era perduto.

Soffermiamoci su quest'ultimo punto: si tende ad accettare che la Chiesa possa utilizzare la strategia dell'"inclusione" per raggiungere anime, sorvolando sulla mancanza di santità e sulla tiepidezza di tanti, in attesa di un loro "convincimento" nel tempo. La parabola delle dramme ci insegna l'esatto contrario: fino a quando non si cammina nella luce, le anime rimangono nella morte spirituale.

A questo punto, chiediamoci: è in questa parabola che Gesù si riferisce ai credenti che si sono allontanati dalla comunità? E il pastore è identificabile con la donna che spazza la casa?

La risposta è no. Ancora una volta, il riferimento è ai perduti; l'unica differenza rispetto alla parabola precedente è che queste anime si trovano nella Chiesa del Signore, e da lì non se ne sono mai andate.

Queste anime, però, si trovano nel posto più sicuro in assoluto: la Chiesa. E, quando la Chiesa decide di fare sul serio, i primi a ritrovare Cristo sono proprio quelli che, per anni, avevano ascoltato la Parola, senza però mai riuscire a farla propria. Infatti, la Parola ha un potere enorme, anche quando entra in un cuore sterile: "Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, affinché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così è della mia Parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l'ho mandata", Is 55 :10-11.

La parabola delle dramme ci illumina anche su un'altra realtà: non è saggio stare fuori dalla comunità, perché è lì che viene predicata la Parola salvifica. "Sì, un giorno nei tuoi cortili val più che mille altrove; io preferisco stare sulla soglia della casa del mio DIO, che abitare nelle tende degli empi" (Salmo 84:10).

c. Il figlio prodigo. Come certamente avrete capito, è questa l'unica parabola che rappresenta l'allontanamento volontario del credente. Non mi sentirei di parlare esclusivamente di allontanamento dalla chiesa locale: a parte che ci si può allontanare da una comunità anche per cause di forza maggiore, è evidente che qui abbiamo a che fare con una situazione spiritualmente più complessa.

Un figlio, senza alcuna ragione apparente, chiede al padre "la propria parte". Il motivo sembra essere uno solo: questo ragazzo crede di poter avere un futuro anche fuori dalla casa del padre, in totale autonomia, e addirittura investendo nel mondo l'eredità spirituale avuta in dono.

Quanti si comportano così? Persone che hanno conosciuto Cristo e per anni hanno dimorato all'ombra delle Sue ali, all'improvviso sentono il bisogno di mettere il naso fuori: fuori dalla Chiesa, fuori da un cammino di santità, fuori dalla comunione fraterna, fuori dal servizio... fuori da una routine che inizia ad essere percepita come "monotona" o "pesante".

A volte si finisce così semplicemente per pigrizia, oppure per disappunto, per rancore nei confronti di qualcuno con cui si fa fatica a chiarire; a quel punto si decide che si può fare a meno della casa del Padre "perché Dio è ovunque, non dimora tra le quattro mura". Ma la parabola ci avverte: non c'è alcuna possibilità di riuscita fuori dalla casa del Padre.

Si finisce nella trappola di Satana quando si inizia a credere che sia possibile investire i talenti del Padre nel mondo e avere comunque successo - in fondo ci sono tanti non credenti che hanno fatto fortuna e hanno acquisito una posizione! Ma poi si scopre, attraverso amare esperienze, che l'eredità spirituale non è assolutamente spendibile nel mondo.

Prima di conoscere Cristo non avevamo nulla. È Lui che ci ha equipaggiati di doni e talenti, ma l'obiettivo è solo e soltanto quello di far sì che possiamo investirli nel Regno e farlo avanzare sempre di più. Se pensiamo che la nostra dotazione spirituale valga qualcosa fuori dal Suo regno, siamo fuori strada!

Adesso prestiamo attenzione ad alcuni particolari.

1. Il padre non cerca di fermare il figlio, non lo insegue e non lo contatta mentre si trova in difficoltà. Perché?

Quando un credente ha già preso in cuor suo la decisione di invertire la rotta e andare per il mondo, c'è solo un modo per fargli cambiare idea: lasciargli sperimentare che cosa è il mondo.

Uno dei miei figli, in età infantile, insisteva per toccare il forno mentre era in funzione; fino a quando cercavo di impedirglielo, non faceva che ripetere questo comportamento, incuriosito da cosa potesse succedere. Dal giorno in cui gli ho permesso di fare ciò che voleva... beh, non ha più cercato di rifarlo!

2. Quando il figlio decide di tornare dal padre, il padre gli corre incontro. Non prima. Poi lo riveste, gli dona un anello e fa preparare per lui un banchetto.

Perché tutto questo? Perché nessun padre potrebbe mai approvare un figlio mentre intraprende vie tortuose e insensate. E così il nostro Padre celeste: non può assecondarci. Non può testimoniare permissività. Non può rendersi complice dei nostri errori: piuttosto, preferisce educarci a non ripeterli.

È importante capire una cosa: questo comportamento del Padre non è indifferenza, ma puro amore; e Lui non si muove, ma aspetta pazientemente che il figlio torni con le Sue gambe.

Ma come fa il padre a non andare in ansia mentre il figlio è fuori? Leggiamo le parole di Gesù: "Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io dò loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio" (Gv 10: 27-29).

Troppe volte ci fermiamo alle apparenze e giudichiamo ciò che non possiamo capire. Al di là di ciò che riusciamo a vedere, Gesù conosce i Suoi, ed essi Lo seguono. In un modo o nell'altro, Lo seguono. Probabilmente qualcuno cadrà cento volte e mille si ribellerà, ma una cosa è certa: se è una pecora del Signore, nessuno potrà toglierla dalla mano di Dio. "Colui che ha cominciato in voi un'opera buona, la condurrà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù" (Fl 1:6).

Questo significa che Dio sa che i Suoi figli sono e saranno sempre con Lui, ma deve dare loro un insegnamento: ci sono conseguenze per chi si allontana dalla Sua presenza. E solo sperimentando in prima persona queste conseguenze si può desiderare di tornare al Padre con tutto il cuore.

Allora che aspettiamo? Se siamo figli, torniamo al Padre. Non commettiamo l'errore di identificare il Padre con il pastore, perché lui non è altro che un amministratore dei Suoi beni. Non aspettiamo telefonate o suppliche, perché non è il metodo che Dio ha previsto: Lui sa che sarebbe inutile. E sa che questa pretesa non è altro che un sintomo di orgoglio.

Ritorniamo a Cristo senza esitazione, perché le Sue compassioni sono infinite. E non siamo più come quel figlio che si comportava da schiavo nella casa del Padre, riempiendo l'atmosfera di lamentele e malumore: comportiamoci da figli a tutti gli effetti! Godiamo delle Sue benedizioni; comprendiamo che Egli lavora per il nostro bene; andiamo a Lui con semplicità. Se vogliamo chiedere, chiediamo; se possiamo dare, facciamolo. In ogni cosa, ringraziamolo e circondiamo ogni cosa della Sua lode. Dio ci benedica!


CHE TALENTO TI HA DATO DIO !(?)

Matteo 25:14-30

Il titolo di questo articolo è volutamente ambiguo: infatti, a quella che suona come un'esclamazione di meraviglia, segue una doverosa domanda che è rivolta a tutti noi. Lo scopo è attuare una profonda revisione della parabola dei talenti, che deve indurci a una sana introspezione. Ma andiamo con ordine. Che talento ti ha dato Dio! (?)

Quando leggiamo la parabola dei talenti (Mt 25:14-30), il nostro senso umano di giustizia viene messo a dura prova. È scritto, infatti, che un padrone, in procinto di partire per un viaggio, affidò ai suoi tre servi un diverso numero di talenti (cinque, due e uno), raccomandando loro di farne buon uso. Coloro che avevano ricevuto più talenti furono in grado di farli fruttare, per cui, al suo ritorno, il padrone affidò loro lo stesso numero di talenti con cui avevano iniziato a trafficare. Ma il servo a cui era stato affidato un solo talento fece una buca nel terreno e lo sotterrò; il padrone, irato, gli tolse quell'unico talento e lo diede a chi ne aveva di più, accompagnando il gesto con una sentenza che sembra assurda: "Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha" (Mt 25:29).

Proprio così: non ci fu una seconda possibilità per il malcapitato. Indagheremo più tardi sui motivi per cui quel servo preferì nascondere il proprio talento, e, cosa ancor più incomprensibile, sul perché quel padrone decise di riprendersi il talento e affidarlo a chi ne aveva già tanti. Infatti, nella parabola delle mine, simile a questa (Lu 19:11-27), i presenti fanno notare l'apparente "ingiustizia".

Per adesso, iniziamo a vedere:

1. Cos'è un talento e che valore ha

Purtroppo, del talento abbiamo ancora una concezione troppo lontana dalla realtà biblica, che, a tratti, rasenta la mondanità. Quando qualcuno brilla in un certo campo, diciamo che "ha talento", nel senso di "capacità". Sono di gran moda, alla tv, i cosiddetti "talent show", una vera e propria gara di talenti, che vengono confrontati e misurati senza pietà. Ma tutto questo non corrisponde all'idea biblica di "talento".

Non solo: è diffusa l'idea che il talento fosse una moneta in uso nell'antichità, e che "un solo talento" corrispondesse a una misera monetina di poco valore. Nulla potrebbe essere più falso.

Innanzitutto, il talento attico (τό τάλαντον) era un'unità di misura della massa, quantificabile in un peso, precisamente il peso di una quantità di argento (infatti, nella parabola, il padrone definisce il talento anche con il termine τά αρϒυρία = "l'argento"). Esso valeva circa 60 mine, cioè più di 34 chili di argento, che corrispondevano a 30 anni di lavoro di un operaio! Ma, al tempo di Gesù, il valore del talento in uso presso gli Ebrei si stabilizzò intorno ai 59 Kg, cioè quasi il doppio. In una parola: un capitale!

Adesso ci è più chiara la parabola del servo spietato, (Mt 18:21-35), dove un padrone condona a un servo un debito di ben 10.000 talenti, ma poi quest'ultimo si mostra senza pietà per un debito contratto da un suo sottoposto di soli 100 denari: quanto grande è il debito che avevamo con Dio, che Egli ci ha condonato, rispetto al quale le offese degli uomini non valgono quasi nulla!

2. Come possiamo interpretare spiritualmente il concetto di "talento"

Torniamo alla nostra parabola. Nella sua infinita misericordia, Dio ha distribuito a ciascuno dei Suoi figli una enorme misura di grazia, dal valore incalcolabile, che costituisce un potenziale ricchissimo per conquistare nuovi territori del Suo Regno. È importante sottolineare tre cose.

a. Innanzitutto, nessuno dei servi della parabola viene elogiato dal padrone per le proprie doti, ma perché ha accettato di mettersi in gioco per trafficare i talenti. Non è una questione di competenze: il talento include la volontà, piuttosto che la capacità, di mettere a frutto i doni della multiforme grazia di Dio, che sono elencati dall'apostolo Paolo: "Vi sono poi diversità di carismi (=doni provenienti dalla grazia), ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune (1 Co 12:4-7).

b. La competenza in sé non può essere definita "talento" se non è una "manifestazione particolare dello Spirito",come abbiamo appena letto in 1 Corinzi. Dio non chiama professionisti, o esperti del settore, a curare i Suoi affari, ma gente comune. Mosè, Davide, Paolo, Filippo, Giovanni: erano persone come noi, con i loro limiti, che fecero grandi cose per lo Spirito di Dio.

Evangelizzare, predicare, insegnare, curare, esortare, adorare, sostenere, guarire... senza la direzione dello Spirito Santo, non avrebbero alcuna efficacia. Viceversa, non c'è alcuna limitazione umana che lo Spirito Santo non possa aggirare, per metterci in condizione di investire i nostri talenti (come fu per la balbuzie di Mosè, la spina nella carne di Paolo, o il carattere impulsivo di Pietro). C'è solo un aspetto che può impedire l'investimento del talento, e ne parleremo al punto successivo.

c. Nel passo che abbiamo esaminato sopra, in cui Paolo nomina i doni dello Spirito, viene ribadito che essi sono "per l'utilità comune" (1 Co 12:4-7). Il talento deve essere messo a disposizione della Chiesa, o di quanti possono trarne beneficio. Ne deriviamo che il talento deve essere investito nell'opera di Dio, e non nel mondo o nel soddisfacimento del proprio io!

Questo significa volersi disporre ad essere "canali di benedizione" in favore di altri, piuttosto che presentarsi come detentori privilegiati di un qualche "fuoco sacro". Significa prendere ciò che Dio ha dato per poterlo donare di nuovo. Significa, in altre parole, rinunciare a sé stessi. Chi non è disponibile ad accettare queste condizioni, rinnegando ogni giorno le esigenze carnali del proprio "io", prima o poi si scoraggerà e si tirerà indietro.

d. Dio si aspetta che il frutto sia proporzionato al valore del talento ricevuto. I due servi che avevano trafficato furono lodati, perché avevano conseguito i risultati attesi, anche se diversi tra loro. Questo concetto è ribadito anche altrove: "A chiunque è stato dato molto, sarà domandato molto; e a chi molto è stato affidato, molto più sarà richiesto" (Lu 12:48).

Ricapitolando, non c'è niente di lodevole, nel talento in sé e per sé, se questo non viene investito nel Regno, con umiltà, al punto da produrre un frutto di gloria proporzionato alla dotazione di partenza.

Ma torniamo al servo che ha nascosto il suo talento sottoterra, e sciogliamo altri nodi.

3. Perché il servo preferisce rinunciare a un patrimonio così grande

La spiegazione è nelle sue stesse parole: "Signore, io sapevo che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; eccoti il tuo" (Mt 25:24-25). Il servo conosce la natura di Dio, e sa che Egli può fare ciò che vuole, persino "suscitare figli di Abramo dalle pietre (Mt 3:9). Dio non ha bisogno dell'aiuto dell'uomo per portare anime a ravvedimento, e potrebbe fare anche tutto da solo. A questo punto, il servo pensa bene di salvare la propria vita, perché sa che lavorare nel campo di Dio comporta sacrificio, rinuncia e persecuzione. Ma non ha fatto i conti con l'avvertimento del Signore che "chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà" (Mc 8:34-35).

4. Perché il padrone non accetta le giustificazioni del servo

Gli aggettivi che usa il padrone per descrivere il servo inadempiente sono "malvagio" e "indolente". Pigrizia e malvagità vanno a braccetto, perché la pigrizia è un peccato come tanti.

Leggendo la parabola superficialmente, potremmo essere còlti da pietà verso il servo, e potremmo cadere nell'errore di giudicare il padrone troppo severo. Ma la realtà è un'altra.

a. Il servo non sembra avere ripensamenti circa il proprio atteggiamento. Ha nascosto il suo talento per tutta la vita e non ha mai più riaperto il capitolo. Magari ha visto tanto bisogno intorno a sé ma, pur potendo intervenire, si è lasciato prendere dall'indifferenza.

Eppure, dalle parole del padrone scopriamo che il servo sapeva di avere un'altra opzione: affidare il talento ai banchieri, che lo avrebbero fatto fruttare al suo posto.

b. Chi sono questi banchieri? Il termine "banchiere" (= τραπεζίτης) potrebbe far pensare a una statica figura "da scrivania". In realtà, la Parola è molto precisa. Il banchiere vero e proprio, infatti, non va confuso con il "bancario" (che si occupa di assistere il cliente), ma si identifica col proprietario della banca, che detiene i capitali e a cui le persone affidano con fiducia il proprio patrimonio affinché maturi interessi. Il banchiere, inoltre, si prende una grossa responsabilità, perché da lui dipende la riuscita o meno dell'investimento.

E chi altri si occupa di gestire praticamente le ricchezze dei credenti, se non i ministri della Chiesa, a vario titolo, con i rispettivi ministeri? Si palesa un aspetto molto interessante, che è la sottomissione del talento all'autorità delegata da Dio (il che, ovviamente, presuppone che i ministri siano a loro volta sottoposti all'autorità e, in generale, conformi alle Scritture). Il padrone sta dicendo al servo: "Non hai un ministero specifico? Non importa, ci pensano coloro che ne hanno già uno, e sapranno cosa fare del tuo potenziale. Da solo non basterebbe, ma nelle mani giuste può fruttificare. Non solo: anche il ministero in questione si arricchirà, e, così, ciascuno avrà ricevuto la propria parte".

Dal testo emerge che il servo sapeva, ma non ha voluto. Sicuramente per paura, come è scritto. Ma magari anche per la scarsa attitudine ad affidarsi all'autorità. Oppure per l'orgoglio di fornire il proprio contributo. O, ancora, per l'impazienza di aspettare i tempi opportuni. Comprendiamo quanto il problema sia attuale?

5. Perché il padrone dà il talento del servo indolente a chi ne aveva di più

Chi possiede un'azienda e vuole vederla crescere, affida i vari incarichi a persone di cui ha già comprovato l'affidabilità. "Provare gli spiriti" è un'indicazione che ci viene proprio dalla Parola (1 Gv 4:1). Nessuno darebbe una chance a chi si è sempre mostrato disinteressato al lavoro. Ecco perché, nell'interesse di veder crescere l'opera, Dio affida i Suoi affari a chi si è mostrato volenteroso, fedele e perseverante, prima che competente. Ed ecco perché, spesso, nelle diverse realtà ecclesiali pochi fedeli svolgono la maggior parte dei servizi, come pure accade che tanti non riescano a capirne il motivo!

Non abbiamo un Dio buonista ed ugualitario. Abbiamo un Dio giusto e santo. A chi ha molto (in termini di frutto, derivante dalla cooperazione della volontà con l'opera della grazia- Ga 5:22), sarà dato ancora (in termini di talenti). Ma a chi non ha (frutto), sarà tolto anche l'unico talento. Troppo spesso ci si applica ad affinare il talento (inteso come competenza), attraverso corsi e stage, piuttosto che lavorare sul frutto dello Spirito in noi, l'unico che può metterci in condizione di spendere correttamente il talento!

Riusciamo ad immaginare quel giorno in cui ci sarà chiesto conto dei nostri talenti? Riusciamo ad immaginare l'onta della disapprovazione, se ancora una volta, saremo stati sordi al Suo richiamo? Non è così difficile servire il Signore, se ci disponiamo a recepire attentamente le Sue indicazioni.

Che ognuno di noi possa riflettere! Dio ci benedica.


PERCHE' DIO PERMETTE CERTE TRAGEDIE? 

(Luca 13:1-9)

In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù rispose: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lu 13:1-5).

Quando si presentarono da Gesù per raccontargli l'ultima atrocità di Pilato, Egli conosceva cosa stavano covando nell'intimo dei loro cuori: se Dio aveva permesso tanto male, era per manifestare tutta la Sua disapprovazione verso quei Galilei ribelli. Tanto più che le sette del Giudaismo erano rivali tra di loro, e questo gruppo di Galilei apparteneva certamente alla setta degli Zeloti, che credeva fermamente nel combattimento politico contro l'oppressore romano. Va da sé che i non Zeloti ne approfittarono per affermare che erano in errore.

È notorio che i Giudei collegassero la benedizione di Dio alla prosperità e al successo; di conseguenza, il fallimento non poteva essere altro che un segno di maledizione. Vogliamo ricordare che le Scritture stesse suggeriscono quest'interpretazione: In Deuteronomio 27 e 28, si afferma apertamente che l'obbedienza è causa di benedizione; la disobbedienza, viceversa, di maledizione. Ecco perché Gesù stesso, al momento della crocifissione, sarebbe stato ritenuto "colpito da Dio" (Is 53:4) e, addirittura, sarebbe risultato di "scandalo per i Giudei" (1 Co 1:23).

Ma quei Giudei non sapevano quanto fossero vani i propri ragionamenti. Al v. 34, Gesù accenna profeticamente alla distruzione prossima di Gerusalemme. Quei Giudei, che volevano insinuare una qualche colpa dei loro fratelli zeloti, avrebbero fatto una fine ben peggiore. L'assedio di Gerusalemme del 70 per mano dell'imperatore romano Tito fu una delle pagine più tristi della storia: lo storico Giuseppe Flavio narra che il numero complessivo dei morti da parte dei Giudei fu di un milione e centomila (Guerra Giudaica, V, par. 13, n. 569; VI, par. 9, n. 420), di cui 600 mila morti di stenti e fame e 500 mila uccisi.

Al di là di ciò che credevano i Farisei, è chiaro che le disgrazie succedano, e non solo ai malvagi. Sul perché succedano, torneremo alla fine dell'articolo. Nel frattempo, suggeriamo il video più che esaustivo di Paulo Junior ("E' Dio che manda la malattia?"), al seguente link del nostro canale Youtube: https://www.youtube.com/watch?v=LT0IkTg8S3Q&ab_channel=QuestioniBibliche

Il punto su cui vogliamo approfondirci, per adesso, è un altro: quei Galilei, disse Gesù, non erano affatto più peccatori di tutti loro. Così come le vittime del crollo della torre di Siloe. Una rivelazione che spiazzò tutti.

Attenzione: Gesù non disse neanche che erano meno peccatori. Erano tutti ugualmente peccatori. E, senza ravvedimento, sarebbero andati tutti ugualmente all'inferno.

Molti impiegano tutta la propria vita a cercare di darle un senso, ma l'unico scopo per cui valga la pena di vivere è prepararsi per l'eternità. Alcuni si prestano a battaglie ideologiche o di principio, ed esattamente come quei Galilei ribelli a Pilato, spesso, muoiono sul campo. Ed oggi, come allora, il giudizio della gente si divide: inizia uno spontaneo processo di "eroizzazione" collettiva dei malcapitati, ma la mente associa altrettanto istintivamente la caduta di costoro a una qualche forma di biasimo divino.

Oppure, accade che persone "ordinarie" rimangano vittime di incidenti disastrosi, proprio come i morti per il crollo della torre di Siloe: anche in questo caso, la retorica d'occasione impone una "santificazione" delle vittime incolpevoli; ma l'idea che "Dio non sia intervenuto" continua a martellare la testa dei più.

Ciò che è accaduto recentemente in tutto il mondo- mi riferisco alla pandemia- dovrebbe farci riflettere. Tutti ci siamo chiesti perché Dio non abbia scampato, talora, nemmeno i Suoi figli, e abbiamo pensato che il Suo giudizio fosse piombato su di loro. La verità è che stiamo vivendo come se fossimo eterni, rimandando quanto più possibile l'idea della nostra ultima ora e sperando, fatalisticamente, che a noi toccherà il privilegio di essere rapiti in cielo, come Elia!

Alle perplessità di quei Giudei, che potremmo essere tutti noi, Gesù rispose spostando l'attenzione sul vero problema. Non importa di che morte possiamo morire: importa come ci trova Dio in quell'ultimo istante. A cosa serve aver sacrificato la propria vita in nome di un ideale, se ci aspetta un'eternità senza Dio? Quanto sarà stata inutile la nostra esistenza, se l'avremo condotta futilmente, senza mettere in conto che avremmo potuto andarcene da un giorno all'altro?

In Ecclesiaste 7:1 è scritto che "il giorno della morte è preferibile a quello della nascita". L'uomo ha lo sguardo rivolto a questa Terra, ma Dio ha preparato qualcosa di meglio: un'eternità con Lui. E ci invita ad adoperarci per essa, e a rifuggire le false consolazioni di questo mondo.

Subito dopo l'incontro con i Giudei descritto in Luca 13, Gesù racconta la parabola del fico sterile. L'accostamento non è affatto casuale. Finalmente ci viene spiegato qual è il vero scopo della nostra esistenza, e quale dovrebbe essere la nostra occupazione principale: portare frutto alla gloria di Dio per l'avanzamento del Suo regno. E, forse, possiamo trovare anche una prima risposta (non pretendiamo di averle tutte) a quella fatidica domanda che continua a frullarci nella testa: perché Dio permette certe tragedie?

Quando un agricoltore pianta un albero da frutto, è solo per un motivo: si aspetta il frutto! Ed è molto più contento se il frutto è abbondante. Nessun agricoltore pianterebbe un melo, un ciliegio o un limone per ammirarne lo splendore delle foglie. E, se il frutto non arriva, inizia a chiedersi come intervenire.

È interessante l'osservazione del padrone della vigna: "perché questo fico sterile deve occupare inutilmente il terreno?" (Lu 13:7). Consideriamo che questa domanda è rivolta a tutti noi. Dio ci osserva mentre conduciamo, più o meno consapevolmente, la nostra vita devozionale, e si chiede come fare per non farci essere inutili. Proprio così: mentre noi attendiamo da Lui benedizioni, Egli attende da noi una sola cosa: frutto!

E così tanti credenti passano una vita a non comprendere il reale lavoro che il Signore sta facendo intorno a loro: come è scritto, zappare e concimare (Lu 13:8). Sì, ho detto "intorno" a loro, e non "su" di loro. Perché ciò che modella l'interiore del cristiano sono le situazioni esterne, che, il più delle volte, sono tutt'altro che piacevoli: non è un caso che, nella parabola, il concime utilizzato sia il letame!

Tutto ciò che ci accade è il concime -puzzolente ma nutriente- che ci serve per farci portare frutto. Se è in gioco la nostra eternità, Dio farà l'impossibile per scamparci dall'ira a venire, spezzando il nostro orgoglio e piegando il nostro egocentrismo. Se Dio si aspetta da noi un servizio esemplare, ci indurrà all'ascolto e all'umiltà. Se siamo ancora attratti dal peccato, Dio lascerà che ci scottiamo con esso.

Allora non chiediamoci più: "Perché a me?" E neanche: "Perché non a me?". Ma domandiamoci: "A quale scopo? Cosa ti aspetti da me, Signore? Quale nuovo terreno devi conquistare in me?".

Con la consapevolezza che, se non ora, un giorno avremo tutte le risposte. E soprattutto "Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate" (Ap 21:4).


LE DIECI STRATEGIE VINCENTI DI NEHEMIA

Il libro di Nehemia è così ricco di spunti che un solo articolo non basta a sviscerarne il messaggio. Un aspetto che emerge con forza, e che ci interessa da vicino, è la capacità di Nehemia di affrontare con successo le insidie del nemico e di afferrare con fede la vittoria preparata da Dio.

Troppo spesso siamo convinti che stiamo costruendo qualcosa di stabile nel Signore, solo perché siamo impegnati da anni a svolgere il nostro servizio in chiesa; in realtà, spesso costruiamo solo rituali e abitudini. Siamo così concentrati su noi stessi che non vediamo lo stato di abbandono in cui si trova la nostra anima, il nostro prossimo o la nostra opera, e tutto questo dipende dal fatto che camminiamo "alla cieca", avendo spostato dal nostro sentiero la Parola di Dio, che lo illuminava.

Quando le mura di Gerusalemme erano distrutte, nessun Levita o cantore poté esercitare il proprio servizio, e questo vale anche per noi oggi. Quindi, prima di farti investire il tuo talento, Dio ti mostrerà come ricostruire le tue mura!

La condizione in cui si trova Nehemia quando lo raggiunge la chiamata di Dio non è delle più felici: si trova prigioniero a Susa, capitale dell'Impero Persiano, dove ricopre l'incarico di coppiere del re Artaserse (1:11). Ma, quando viene a conoscenza della triste condizione in cui si trovano gli scampati alla deportazione, e dello stato di semi- distruzione delle mura, viene invaso da una tristezza che lo indurrà a una risoluzione ben precisa (1:4-11).

È importante precisare che si tratta di una tristezza proveniente da Dio, e non di una semplice emozione. Ne parla l'apostolo Paolo in 2 Co 7:9-10: "Ora mi rallegro, non perché siete stati rattristati, ma perché siete stati rattristati a ravvedimento, poiché siete stati rattristati secondo Dio, affinché in nessuna cosa aveste a ricevere alcun danno da parte nostra". E infatti, subito dopo parte una preghiera di pentimento, in cui Nehemia riconosce che è stato il peccato del popolo (e il proprio peccato) a causare tanto male (1:6).

A questo punto, Nehemia decide di chiedere al re di partire per tornare in Giuda e riscostruire le mura di Gerusalemme, avvalendosi di strategie ben precise che vogliamo analizzare da vicino. Per comodità, le raggrupperemo in strategie preventive, organizzative, difensive e di mantenimento.

a. Strategie preventive. Ogni volta che deve iniziare un'opera nuova, Nehemia si prepara.

1. Prega. Prima di fare ogni passo, Nehemia rivolge un'accorata preghiera a Dio. Sa che può contare su di Lui per ogni cosa. Gli chiede perdono e nuove opportunità quando sente il bisogno di tornare a ricostruire il proprio paese (1:5-11). Prega per ottenere il favore del re, prima di chiedergli il permesso di partire (2:4). Prega per chiedere a Dio giustizia sui nemici che cercano di scoraggiare i suoi piani (4:4-5). Prega per vincolare il popolo a mantenere il giuramento di non praticare più l'usura (5:13). Successivamente, induce tutto il popolo a unirsi in preghiera quando si tratterà di confessare i peccati e leggere il libro della Legge (8,9). "Egli mi invocherà e io gli risponderò; sarò con lui nell'avversità; lo libererò e lo glorificherò" (Sl 91:15)

2. Si mette sotto la protezione dell'autorità. Nehemia sa di essere mosso da Dio, ma sente di aver bisogno dell'aiuto del re. Così gli chiede di scrivere delle lettere firmate, alcune indirizzate ai governatori delle regioni oltre il Fiume per chiedere il permesso di andare in Giuda, ed una al guardiano della foresta per ottenere legname utile alle varie costruzioni (2:7-8). Nehemia non va all'avventura, ma prepara il proprio viaggio in sicurezza. "Ogni persona stia sottomessa alle autorità superiori; perché non vi è autorità se non da Dio; e le autorità che esistono sono stabilite da Dio" (Ro 13:1).

3. Mantiene riservatezza sulla propria missione fino a quando non ha finito di ispezionare le mura, per verificarne di persona lo stato rispetto al sentito dire. Solo dopo inizia a coinvolgere le persone nella ricostruzione, e solo dopo esce allo scoperto, rivelando le grandi cose che Dio ha preparato (2:11-20). Spesso, quest'ordine viene invertito: si segue una propria idea, convinti che sia quella giusta, e si coinvolgono persone, ma poi ci si rende conto che Dio vuole portarci in tutt'altra direzione, verso ciò che Lui ritiene urgente. L'apostolo Paolo era convinto che dovesse andare in Asia con i suoi, ma lo Spirito glielo impedì e li indirizzò in Macedonia (At 16:6)

b. Strategie organizzative. Nehemia sistema i suoi collaboratori in modo intelligente e "capillare".

4. Organizza ed elenca chi lavora (3). Profumieri, sacerdoti e orefici sono ugualmente coinvolti nella costruzione di porte, serrature e battenti e nella riparazione delle brecce. Così anche noi: a prescindere dal nostro compito particolare, siamo tutti ugualmente chiamati a costruire il Regno di Dio nella nostra vita e nella vita degli altri. "Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata" (Mt 13:33).

Inoltre, Nehemia annota anche chi lavora controvoglia (è il caso dei Tekoiti, 3:5) e chi lavora "con ardore" (Baruk, 3:20). Ricordiamoci che anche Dio sta annotando ogni cosa sul Libro della vita (Ap 13:8; 21:27): non vogliamo essere trovati mancanti quando saranno aperti i sigilli! Qualsiasi cosa facciamo, dobbiamo essere consapevoli che Dio ci osserva.

c. Strategie difensive. Nehemia sa che il pericolo è sempre in agguato e che non può distrarsi: Sanballat e i suoi iniziano con piccole tattiche di scoraggiamento verso il popolo, ma poi arrivano a macchinare trame di morte (2:19-20; 4:1-12). Infine, tendono una trappola personale a Nehemia (6:1-14). Lo stesso succede anche a noi man mano che progrediamo nell'opera di Dio: il nemico cerca di farci cadere in tutti i modi. Vediamo come Nehemia organizza la controffensiva.

5. Dispone personale per difendere i lavoratori: sentinelle sopra, e uomini armati sotto e dietro le mura (4:9). L'intercessione è sicuramente un'arma formidabile per proteggere chi lavora nel campo del Signore. "Siate sobri, vegliate, perché il vostro avversario, il diavolo, va attorno come un leone ruggente cercando chi possa divorare" (1 Pt 5:8).

6. Cambia strategia quando si rende conto che non sta funzionando: metà dei lavoratori sarà in armi, metà sarà impegnata nei lavori. Questi ultimi, avranno una mano impegnata con l'attrezzo da lavoro, l'altra con la lancia, e la spada sempre al fianco (4:13-23). Se siamo impegnati in un compito non possiamo semplicemente affidarci all'intercessione altrui, ma dobbiamo essere interamente protetti dall'armatura di Dio e avere sempre a disposizione l'arma per eccellenza, la spada dello Spirito, che è la Parola di Dio; forse procederemo con più lentezza, ma saremo al sicuro. "Rivestitevi dell'intera armatura di Dio per poter rimanere ritti e saldi contro le insidie del diavolo" (Ef 6:11).

7. Non cede alla paura quando gli viene detta la menzogna che qualcuno cercherà di ucciderlo, e rifiuta di scappare e rifugiarsi nel tempio (6:11). Gesù non ascoltò neanche una bugia del nemico che gli suggeriva svariati modi per cadere. "Resistete al diavolo, ed egli fuggirà da voi" (Ef 4:2).

d. Strategie di mantenimento. Una volta completata la costruzione delle mura, Nehemia dà vita a una vera e propria riforma del popolo, per assicurargli una benedizione duratura.

8. Impone il condono di ogni debito (5). Il popolo era caduto vittima dell'usura ed era oltremodo oppresso. Nehemia ordina la liberazione immediata da ogni peso, e in più rifiuta il proprio compenso per dare esempio di liberalità. Se vogliamo vedere una restaurazione completa della nostra vita e della nostra comunità, dobbiamo perdonare le vecchie offese. "Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato. Date e vi sarà dato: una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata in seno, perché con la misura con cui misurate, sarà altresì misurato a voi" (Lu 6:37-38).

9. Celebra con gioia la lettura della Parola (8:1-12). Il popolo piange perché pentito dei propri peccati, ma Nehemia dice: "Non rattristatevi, perché la gioia dell'Eterno è la vostra forza" (8:10). Nehemia vuole insegnare al popolo che la Parola, anche quando riprende, consola e guarisce i cuori. "Ogni correzione infatti, sul momento, non sembra essere motivo di gioia, ma di tristezza; dopo però rende un pacifico frutto di giustizia a quelli che sono stati esercitati per mezzo suo" (Eb 12:11).

10. Ripristina l'ordine nella casa di Dio (13). Nel tempo della cattività aveva prevalso il disordine e il disinteresse. Il popolo si era contaminato con donne straniere, aveva smesso di osservare i sabati e aveva disonorato i Leviti. Nehemia agisce con forza, eliminando ogni impurità (13:25-26). Nessun compromesso con il peccato. "Voi che amate il Signore, odiate il male" (Sl 97:10).

La storia di Nehemia ci illustra molto bene che cosa significa muoversi con preparazione e coordinazione. Le mura furono completate in soli 52 giorni, e furono un capolavoro di ordine e avvedutezza, prima che di grandezza.

Ricordati: non siamo stati chiamati a costruire il nostro regno, bensì il Regno di Dio sulla Terra. "Il mio regno non è di questo mondo", disse Gesù (Gv 18:36). Ogni giorno, metti mano alle mura con questi dieci semplici attrezzi da lavoro: prega sempre, rispetta l'autorità, ubbidisci a Dio, motiva i conservi, intercedi, disponiti al cambiamento, non aver paura, perdona, celebra la Parola con gioia, allontanati dal peccato.


I "CRIPTO-CREDENTI": NICODEMO E GIUSEPPE D'ARIMATEA

(Giovanni 19:38-42)

"Dopo queste cose, Giuseppe d'Arimatea, che era discepolo di Gesù, ma in segreto per timore dei Giudei, chiese a Pilato di poter prendere il corpo di Gesù, e Pilato glielo permise. Egli dunque venne e prese il corpo di Gesù. Nicodemo, che in precedenza era andato da Gesù di notte, venne anch'egli, portando una mistura di mirra e d'aloe di circa cento libbre. Essi dunque presero il corpo di Gesù e lo avvolsero in fasce con gli aromi, secondo il modo di seppellire in uso presso i Giudei. Nel luogo dov'egli era stato crocifisso c'era un giardino, e in quel giardino un sepolcro nuovo, dove nessuno era ancora stato deposto. Là dunque deposero Gesù, a motivo della Preparazione dei Giudei, perché il sepolcro era vicino" (Gv 19:38-42).

Nel racconto sulla resurrezione fatto dall'evangelista Giovanni, spiccano due figure alquanto insolite: Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo. Osserviamo quali tratti li accomunano.

1. Avevano preferito esperienze "criptiche" del Maestro: Giuseppe lo seguiva "di nascosto, per timore dei Giudei" (Gv 19:38), e Nicodemo aveva voluto incontrarlo "di notte". Essendo farisei, sicuramente cercavano di proteggere la propria reputazione.

2. Avevano preso le distanze dai complotti sacerdotali contro Gesù. Di Giuseppe, ciascuno dei sinottici completa il ritratto, rivelando, oltre al fatto che era "ricco" (Mt 27:57), "illustre membro del Consiglio, che aspettava anch'egli il Regno di Dio" (Mr 15:43), che, appunto, "non aveva acconsentito" all'arresto di Gesù (Lu 23:51). Anche Nicodemo, quando i capi dei sacerdoti avevano cercato di prendere Gesù, li aveva dissuasi: "La nostra legge condanna forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che egli ha fatto?" (Gv 7:51).

3. La loro rivelazione del Cristo era incompleta. Come abbiamo detto, Giuseppe aspettava il Regno di Dio, ma era uno di quelli che lo aveva visto da lontano, senza entrarvi. Nicodemo aveva definito Gesù "dottore che viene da Dio" e non aveva compreso il concetto di "nuova nascita" (Gv:3). A quest'uomo, Gesù fa notare che, se uno è nelle tenebre, è perché ama le tenebre: "La luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno amato le tenebre più che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Infatti chiunque fa cose malvagie odia la luce e non viene alla luce, affinché le sue opere non siano riprovate; ma chi pratica la verità viene alla luce, affinché le sue opere siano manifestate, perché sono fatte in Dio" (Gv 3:19).

4. La loro vita di fede è caratterizzata da un unico e tardivo atto di fede: chiedere a Pilato la restituzione del corpo di Gesù. Nella cultura giudaica, il seppellimento dei morti, anche dei criminali, era un atto dovuto. Anche per questo, oltre che per il prestigio di Giuseppe, i due riescono facilmente nell'impresa.

5. Offrono a Gesù un culto privato e, ancora una volta, "nascosto". Immaginiamo la scena. Giuseppe sale sulla croce e stacca i chiodi dal corpo di Cristo; poi prende su di sé quel corpo ormai freddo e privo di vita. È come se, finalmente, volesse rendersi parte anche lui di quel corpo che, però, non può più fare nulla per lui. Nicodemo ha portato una quantità esagerata di aromi per ungere quel corpo: circa 14 kg, la ricchezza di una vita. È una quantità che va oltre il necessario e tradisce un desiderio di "recuperare" ciò che non è stato fatto a suo tempo.

6. Dopo quel culto, i due spariscono. Non li troviamo nel gruppo dei discepoli che parteciperà della resurrezione. Non sono neanche nel gruppo della Pentecoste, o nella Chiesa primitiva a vario titolo. Ancora una volta, fuori dal gruppo, fuori dalla luce e fuori dal calore.

7. Non vengono citati da Gesù come coloro che ungeranno il suo corpo per la sepoltura. Quest'onore toccherà a Maria di Betania, il cui atto di adorazione viene ricordato da tutti i sinottici (Mt 26:6-13; Mr 14:3-9; Gv 12:1-8; Lu 7:36-50). E infatti Gesù aveva anticipato che quel gesto sarebbe stato ricordato ovunque. Ricostruendo la scena dai quattro punti di vista, questa donna, dopo aver ascoltato Gesù profetizzare la propria morte, rompe un vaso di olio preziosissimo e lo versa sul capo di Gesù: l'olio fluisce su tutto il corpo, fino ai piedi che, bagnati anche da lacrime, vengono asciugati con i capelli. Lo fa "in vista della Sua sepoltura".

È un atto di adorazione completamente diverso da quello dei cripto-credenti, perché risponde a queste caratteristiche:

- È pubblico. Maria è venuta alla luce, come voleva il Maestro

- Non si sottrae alle critiche, che puntualmente arrivano

- Non si cura della reputazione personale.

- È l'adorazione di un corpo vivo, non di un corpo morto.

La vera adorazione parte dalla consapevolezza che Gesù è vivente. E il corpo di Cristo è un corpo vivente, la Sua Chiesa, la Sua Sposa in carne ed ossa che porta avanti il Suo mandato, la sua casa spirituale costituita da tutti noi, sassolini edificati sulla Roccia (1 Pt 2:5-8). Nessuno può adorarlo se non si inserisce in quel corpo glorioso, venendo allo scoperto e rischiando qualcosa. Il corpo di Cristo non è un corpo morto, e neppure un corpo "virtuale", al quale ci si può "connettere" con un semplice click: i tralci devono essere saldamente innestati nella vite, affinchè vi possa scorrere la Sua vita.

"Dove sarà il corpo, lì si raduneranno le aquile" (Lu 17:37): con questa frase a doppio significato, Gesù intese profetizzare due grandi realtà:

1. I Suoi figli si sarebbero raccolti intorno alla Sua Chiesa

2. Alla Sua venuta, la Sua Chiesa sarebbe stata attratta dal Suo corpo, glorificato per tornare come Re.

Vogliamo far parte di un corpo vivente, per essere riuniti al Vivente in quel giorno glorioso!


SE LE ACQUE SONO AMARE...RISANALE CON IL LEGNO!

 (Esodo 15:22-25)

Dopo tre giorni di cammino nel deserto, gli Israeliti iniziarono a mormorare contro Mosè perché, pur avendo trovato l'acqua, si resero conto che era amara. Mosè vi gettò sopra un legno e la sanò. Più tardi successe la stessa cosa, ma Mosè, spazientito, anziché eseguire l'ordine di Dio parlando alla roccia, la batté col bastone: ormai pensava che la soluzione fosse il bastone, anziché Dio stesso. Dio lo punì non facendolo entrare nella Terra Promessa, e la stessa sorte toccò alla maggior parte di quel popolo oppositivo e incredulo (Nu 20).

Spesso noi facciamo la stessa cosa: mormoriamo contro i nostri conduttori perché le acque sono amare: il contesto intorno a noi è difficile, e magari anche in chiesa non è tutto rose e fiori, ma anziché applicare il legno della croce sulle varie situazioni scegliamo di mormorare o di scappare dalle persone, che crediamo addirittura essere colpevoli del nostro male. Eppure neanche la chiesa primitiva era perfetta, ma vinceva.

In 2 Corinzi 2, vediamo servitori indegni, come Dema, che scelse di tornare nel mondo, Alessandro, che contrastava sulla dottrina, Imeneo e Fileto, che sovvertivano il popolo con falsi insegnamenti; in 3 Giovanni, Diotrefe signoreggiava sul popolo; in Atti, compaiono ipocriti come Anania e Saffira, religiosi come quelli che volevano circoncidere i nuovi convertiti, Corinzi che tolleravano la presenza di un fornicatore; in 1 Giovanni addirittura si parla di "anticristi". Senza contare le continue persecuzioni...

Fin dalla sua nascita, la chiesa non è mai stata perfetta, anzi è sempre stata caratterizzata da una variegata "umanità". Ma questo non significa che in chiesa si nasconda "il nemico". Il problema è che il nemico le prova tutte per non farci avere una piena vittoria. Anche se lui conosce ciò che è scritto in Romani 8: 35-37 ("Noi siamo più che vincitori in Cristo") e 1 Giovanni 4:4 ("Colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo"), mette in atto continuamente macchinazioni contro la Chiesa (2 Co 2:11) e "va attorno come un leone ruggente cercando chi possa divorare" (1 Pietro 5:8).

Perché? Per convincere noi a fare una vita spirituale mediocre. A lui basta questo. Satana ci odia perché è geloso del fatto che siamo portatori dell'immagine di Dio e "partecipi della natura divina" (1 Pietro). Lui lo sa, ma spesso chi se ne dimentica siamo noi. È geloso perché ha perso la signoria su di noi (Eb 2:14-15). Non vuole che evangelizziamo, che celebriamo i nostri piccoli e grandi trionfi e che viviamo una vita vittoriosa in Cristo!

Oggi come ieri, le sue macchinazioni sono sempre le stesse, e si dirigono principalmente contro la famiglia e contro la Chiesa: la novità è la modalità, che si è adeguata ai tempi. Sui "social", per esempio, spesso leggiamo accuse contro la chiesa o i ministri; assistiamo a tentativi di screditare e scardinare opere, gruppi e lo stesso senso di esistere della Chiesa del Signore.

Tutto questo si spiega facilmente: il nemico teme una chiesa organizzata e in grado di trafficare efficacemente doni, talenti e ministeri. Molte persone bevono a queste acque amare, e magari credono che il problema sia nei conduttori o in un popolo ancora non "perfetto". Ma qual è l'indicazione biblica?

In Ebrei 2:15 leggiamo che Dio ha cura della progenie di Abramo; anche noi, quindi, come sentinelle, dobbiamo vigilare sui nostri fratelli, anziché nutrire sospetti su di loro. La soluzione da applicare è, ancora una volta, un legno: quello della croce.

In 2 Re 2, vediamo che Eliseo gettò un legno sull'acqua per recuperare una scure caduta nel Giordano. Ancora una volta, un legno: abbiamo bisogno che la croce faccia uscire da noi il ferro, e cioè la parte più dura, quella che non ci consente di lasciare spazio all'opera dello Spirito. Dobbiamo cedere ogni resistenza in favore del Signore, guardare continuamente a quel sacrificio, espiatorio ma anche guaritore.

Il nostro operato deve essere totalmente battezzato nell'acqua della Parola di Dio. Solo conoscendola tutta sapremo contrastare i dardi infuocati del nemico e potremo risanare anche le acque più amare!


DIO VUOLE DARTI UN CAMPO DA IRRIGARE

 (Genesi 26:12-32)

Isacco era circondato dall'invidia. Nel Paese dei Filistei, nonostante la sua condizione di straniero, nonostante la carestia, Isacco aveva seminato e aveva "raccolto il centuplo". Era diventato "straordinariamente grande".

Allora i Filistei turarono i pozzi che aveva ereditato da Abramo. Ma Isacco non si scoraggiò, e si mise pazientemente a riscavarli. Poi ne scavò di nuovi. Ma, ancora una volta, i Filistei contesero per quei pozzi, e costrinsero Isacco a scavare ancora. Isacco scavava e scavava, e trovava sempre acqua, perché Dio era con lui. Fino a quando nessuno ebbe più nulla da ridire, e finalmente poté prendere possesso di quella terra. "Ed egli lo chiamò Rehobot, perché disse: «Ora il SIGNORE ci ha dato spazio libero e noi prospereremo nel paese»" (v. 12). La prosperità di Isacco fu tale che i Filistei non poterono far altro che riconoscere che il Dio di Isacco era il Dio del Cielo, e il re Abimelek, che aveva dimenticato l'alleanza con Abramo (Gn 21:22-32) e aveva acconsentito alla cacciata di Isacco dal paese, venne addirittura a chiedergli di stringere alleanza (v. 28)!

Forse anche tu, come Isacco, sei stato costretto da qualcuno o qualcosa a rinunciare alle tue conquiste, e forse sei stato tentato di credere di aver perso qualcosa. Ma c'è una buona notizia: Dio non toglie mai nulla ai Suoi figli senza aver preparato per loro qualcosa di meglio. Quali furono le chiavi del "successo" di Isacco (nel senso della realizzazione dei suoi propositi)?

1- La rinuncia. Da non confondere con il "sotterrare il talento", che invece è un grave peccato davanti a Dio! Isacco aveva certamente imparato molto da suo padre. Lo aveva visto rinunciare alla parte più allettante del paese di Canaan in favore del nipote Lot (Gn 131-18), e lui stesso, da fanciullo, si era visto deporre su un altare di rinuncia e di sacrificio (Gn 22:1-18). Isacco non contende con i pastori, ma va oltre. Perché? Perché sa che la sua mano è guidata da Dio, il quale è potente a fargli trovare l'acqua ovunque. Isacco non dipende dalla scoperta  di nuovi pozzi: Isacco dipende dal Dio altissimo, che è il creatore dei pozzi!

Gesù parlò della vita del discepolo come una vita di rinuncia, ma ricca di ricompensa: "... non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo, il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme a persecuzioni e, nel secolo a venire, la vita eterna" (Mc 10:28; Mr 16:29-30).

2- L'insistenza. Isacco continua a scavare senza lamentarsi o scoraggiarsi. "Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve; chi cerca trova, e sarà aperto a chi bussa" (Mt 7:7). Il profeta Eliseo si arrabbiò quando il re Ioas batté con le frecce a terra solo tre volte, perché questo avrebbe prodotto una vittoria parziale (2 Re 13:15-19). Molti vogliono godere dei vantaggi della vittoria, ma sono sempre pochi coloro che sono disposti a combattere per essa.

Cos'altro impariamo da questa storia? Impariamo che, se Dio ci dà un pozzo, è per uno scopo ben preciso: farci irrigare un campo. Viceversa, potremmo dire che non avremo alcun campo, se prima non ci saremo sforzati di scavare un pozzo!

Attenzione: c'è una differenza tra "pozzo" e "cisterna". Non sforziamoci di costruire le "cisterne screpolate" di cui parla Geremia (2:13): "Poiché il mio popolo ha commesso due mali: ha abbandonato me, la sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne rotte, che non tengono l'acqua". Non è possibile cercare di conservare la benedizione di un tempo in un recipiente: è una mera illusione. Alla lunga, scopriremo che quell'acqua non è più e, come sperimentò Geremia, ci ritroveremo solo fango!

Noi sappiamo che il pozzo per eccellenza, la fonte d'acqua viva, è Gesù. "Chi ha sete, venga a me e beva" (Gv 7:37). E dove potremmo trovare il Signore, se non nella Sua Parola? Scavando in essa, troveremo una sorgente di benedizione con la quale potremo irrigare il campo che Dio sta per darci in possesso!

Ogni cosa che Dio ci darà, sarà per benedire altri. Dall'incontro con la Samaritana in Giovanni 4:7-26, scopriamo le intenzioni di Gesù per la nostra vita. Egli vuole:

- dissetare noi ("chi beve dell'acqua che io gli darò, non avrà mai più sete")

- dissetare coloro che lo cercano, attraverso di noi ("l'acqua che io gli darò diventerà in lui una fonte d'acqua che scaturisce in vita eterna")

- dissetare sé stesso, attraverso la constatazioneche noi stiamo adempiendo le opere da Lui preparate per noi ("dammi da bere"). Gesù desidera che continuiamo a scavare pozzi per irrigare i terreni aridi delle anime.

Insomma, il pozzo è quel luogo che, nel Regno di Dio, risponde ai principi della Sua moltiplicazione. Più scaviamo, più irrighiamo, più anime raggiungiamo, più produciamo frutti alla Sua gloria.

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