
DONAZIONE DEGLI ORGANI:
SI' O NO?
Per noi cristiani, il problema maggiore che riguarda le questioni etiche è che non si tratta di capire se siamo "a favore" o "contro", ma di porre una linea di confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è (1 Co 6:12-17), facendo in modo che tale confine non sia frutto dell'arbitrio, ma di riscontri biblici.
Analizziamo, quindi, la procedura dal punto di vista scientifico, in modo da poter ricavare alcune conclusioni certe che ci faranno da "binari".
a. Cos'è la donazione degli organi?
La donazione degli organi è un processo in cui una persona cede uno o più organi del proprio corpo affinché siano impiantati in un'altra persona, che ne ha bisogno per sopravvivere a causa di una malattia o un infortunio grave. Questa pratica è altamente complessa, ma è stata resa possibile grazie ai progressi nella medicina e nella chirurgia, che hanno permesso di sviluppare tecniche di trapianto molto avanzate.
Quando un organo viene prelevato, deve essere mantenuto in condizioni ottimali, per evitare che venga danneggiato e diventi inservibile; per questo, prima di affrontare il trasporto, l'organo viene immerso in soluzioni speciali, fino al raggiungimento della destinazione, che deve essere quanto più rapido possibile.
L'organo, quindi, deve essere funzionante; per questo motivo, a parte i pochi casi in cui l'espianto viene effettuato da una persona viva, è necessario che il donatore sia in morte cerebrale, una condizione irreversibile in cui il cervello non è più attivo, ma altri organi possono ancora funzionare, grazie a macchine di supporto. Il processo, inoltre, richiede un'attenta compatibilità tra il donatore e il ricevente, per minimizzare il rischio di rigetto da parte del sistema immunitario di quest'ultimo.
b. Cos'è la morte cerebrale?
La morte cerebrale è una condizione in cui tutte le funzioni del cervello, comprese le funzioni vitali come la respirazione e l'attività neurologica, cessano in modo irreversibile. In altre parole, il cervello smette di funzionare completamente, ma il cuore può continuare a battere, con l'ausilio di apparecchiature che mantengono il supporto vitale, come i respiratori meccanici.
Quando si verifica la morte cerebrale, il cervello non è più in grado di compiere alcuna attività elettrica e non mostra alcun segno di attività metabolica. Questa condizione è distinta dal coma, uno stato di incoscienza profonda, che può essere reversibile o meno, ma in cui il cervello può comunque conservare qualche funzione, anche minima. Nella morte cerebrale, tutte le aree del cervello, inclusi il tronco cerebrale (che regola funzioni vitali come la respirazione e il battito cardiaco), sono irrimediabilmente danneggiate.
In altre parole, anche se il cuore continua a battere grazie al supporto delle macchine, la persona è clinicamente morta, e tale viene considerata, dal punto di vista scientifico e legale (quindi ufficiale), anche se il cuore sta ancora battendo.
c. La diagnosi di morte cerebrale è sicura?
Assolutamente sì. La morte cerebrale viene diagnosticata attraverso test clinici rigorosi e riconosciuti a livello internazionale, tra cui l'assenza di riflessi cerebrali, l'assenza di attività elettrica nel cervello (come misurato da un EEG) e la conferma che non vi è alcuna possibilità di recupero. Una volta accertata la morte cerebrale, il paziente può essere considerato per la donazione degli organi, poiché il corpo non è più in grado di mantenere funzioni autonome senza il supporto delle macchine.
d. La morte cerebrale è reversibile?
No. La diagnosi di morte cerebrale è una dichiarazione di irreversibilità, perché la morte cerebrale è causata da danni irreparabili al cervello, come quelli derivanti da un trauma cranico grave, un'emorragia cerebrale o altre cause che interrompono in modo definitivo la circolazione sanguigna al cervello. Quando il cervello subisce danni così gravi, non c'è più alcuna capacità di rigenerazione o ripresa delle sue funzioni, motivo per cui la morte cerebrale è considerata definitiva.
e. Chi è in morte cerebrale può avvertire sensazioni come il dolore, oppure emozioni?
No. Le persone in morte cerebrale non avvertono alcuna sensazione o emozione. Terminando l'attività del tronco cerebrale, finisce anche la regolazione delle funzioni vitali, come la respirazione, il battito cardiaco e anche la consapevolezza.
Quando una persona è in morte cerebrale, il cervello non è più in grado di ricevere, elaborare o rispondere a stimoli, il che significa che la persona non ha più percezione di ciò che accade intorno a sé. Non ci sono segnali di coscienza, consapevolezza o percezione sensoriale, e la persona non può provare dolore, ansia, o altre sensazioni.
Siamo giunti, quindi, a due importanti conclusioni:
1. La morte cerebrale è irreversibile; la persona è clinicamente e legalmente morta.
2. La morte cerebrale comporta l'assenza di emozioni e sensazioni.
Questo dovrebbe indurci quantomeno ad abbattere quel muro di diffidenza che, talvolta, si erge nei confronti della procedura del prelievo degli organi, magari solo per mancanza di conoscenze adeguate sull'argomento.
A questo punto, chiediamoci come si inquadra la donazione degli organi dal punto di vista spirituale.
a. Può, Dio, risuscitare un morto?
Assolutamente sì, e la Parola ci parla di diversi miracoli di resurrezione (1 Re 17:17-24; Lc 7:11-17; Gv 11:1-44; Mt 27:51-53; At 9:36-42; 20:7-12); nei secoli, inoltre, sono state tantissime le testimonianze di questo prodigio. Tuttavia, questo non vuol dire che Dio voglia sempre muoversi così. Non dimentichiamo che ciascun miracolo è stato preordinato innanzitutto per essere un segno specifico, e non la soluzione a ogni perdita che, purtroppo, dobbiamo affrontare in questa vita.
In genere, lo Spirito Santo avverte di ciò che intende fare, e anche nel caso in cui voglia operare una resurrezione Egli è in grado di manifestarlo.
b. La donazione degli organi è compatibile con la Bibbia?
Secondo le nostre deduzioni, questa procedura è biblica; non solo, ma può rivestire un significato molto profondo. Premesso, infatti, che il consenso alla donazione deve essere prestato in vita, dire di sì all'espianto eventuale dei propri organi significa compiere preventivamente un atto d'amore e di generosità verso il prossimo che non tutti sono disposti a fare (Mt 22:39). Se, a questo, aggiungiamo il fatto che tale pratica non è obbligatoria e non ci viene espressamente richiesta da Dio, possiamo dedurre che essa diventa ancora più preziosa.
In Giovanni 15:13, infatti, è scritto che"nessuno ha un amore maggiore di questo: dare la propria vita per i propri amici." Difficilmente noi cristiani occidentali ci troveremo a compiere il sacrificio estremo, e cioè deporre volontariamente la nostra vita per qualcun altro, ma chi accetta di donare gli organi sceglie, comunque, di perdere il controllo su ciò che ha di più prezioso dopo il Signore, e cioè il proprio corpo. Si tratta, a nostro avviso, di una vera e propria rinuncia a sé stessi, di grande rilevanza spirituale.
In Galati 6:9-10, siamo invitati espressamente a "fare del bene a tutti, soprattutto a quelli della famiglia della fede", per raccogliere un frutto a suo tempo: questo vuol dire fare del bene ogni volta che ne abbiamo l'opportunità. Infatti "chi sa fare il bene e non lo fa, commette peccato" (Gm 4:17). Agli occhi di Dio, ciascuna vita è preziosa, ed è per questo che Gesù ha scelto di sacrificarsi "come prezzo di riscatto per molti" (Mr 10:45): Lui sapeva che ne sarebbe valsa la pena. Così è, in qualche modo, per chi dona gli organi: si tratta di dare una nuova opportunità a qualcuno che avrà più tempo per conoscere il Signore, ricevere la salvezza e/o perfezionarsi nelle vie di Dio.
Con quest'ultimo argomento vogliamo anche confutare la tesi di quanti affermano che, siccome il corpo è il "tempio dello Spirito Santo" (1Co 6:19), dobbiamo lasciarlo intonso fino alla fine. L'esempio di Gesù e dei martiri suggerisce che deporre la vita per altri non è un'offesa al proprio corpo, ma un atto di adorazione, se viene fatto con l'amore di Cristo e non come opera meritoria (1 Co 13:1-3).
Donare un organo a chi ne ha bisogno, quindi, non è altro che un modo per usare i doni che Dio ci ha dato a favore di qualcun altro, onorando così il valore della vita umana (Sl 39:13-16).

DECIMA SI', DECIMA NO
Equivoci sulla decima
Troppi credenti -ahimè- continuano ad avere sospetti sulla gestione del denaro delle decime e a non fidarsi del ministero locale; ma come stanno, realmente, le cose?
Prima di entrare in argomento, ci preme specificare che i locali e le opere che frequentiamo, e di cui usufruiamo, hanno dei costi di gestione e manutenzione; affitto, bollette, sostegno dei meno abbienti, acquisto di materiale evangelistico, arredi, impianti … da dove pensiamo che venga fuori il denaro per tutto questo?
Siamo così prodighi verso le nostre case, ma poi, nei riguardi della Chiesa, spesso nutriamo atteggiamenti di chiusura e diffidenza. Ci piace l'idea che in Chiesa ognuno debba avere un ruolo, ma non ci piace riflettere che sia giusto che ciascuno contribuisca. Alcuni credenti arrivano al punto da indirizzare all'esterno tutte le proprie contribuzioni, per essere sicuri che vadano "a chi ne ha bisogno", ma poi non esitano a rivolgersi alla comunità di appartenenza per qualsiasi necessità, approfittando della disponibilità permanente e gratuita del ministero locale. Tutto questo non è rispettoso per chi sacrifica la propria esistenza -comprese le proprie entrate- a favore della comunità.
Quando cerchiamo di capire fin dove possiamo spingerci nel donare, o quanto possiamo trattenere per noi, riveliamo una ingiusta sfiducia nei confronti dell'Eterno. Ce la prendiamo con il pastore che insegna la generosità, ma, in realtà, l'oggetto dei nostri dubbi è Dio! Non ci è chiaro che Dio è il creatore di tutto, soldi compresi (Mt 17:24-27), e non crediamo nella promessa che un donatore allegro viene benedetto con grande abbondanza (2 Co 9:6-7).
Con ciò, non escludiamo che l'amore per il denaro possa aver provocato scandali nella storia della Chiesa: lupi travestiti, cattivi insegnanti e falsi profeti ci sono stati preannunciati. Ma questo non può costituire il pretesto perpetuo per tirarci indietro dalle nostre responsabilità.
Stai offrendo all'uomo o a Dio?
La Parola di Dio è ricca di esortazioni a donare, ma quando ci arriva un insegnamento sul tema siamo protesi a sindacare le intenzioni di chi lo fa. Perché? Come mai riceviamo volentieri una pastorale sui doni dello Spirito, ma prendiamo con le pinze ciò che riguarda il sacrificio economico?
Quando si tocca il denaro, si tocca la parte più intima di noi stessi. Gesù disse che, alla fine dei conti, l'uomo sceglie sempre e solo fra due strade: Dio o Mammona (l'idolo del denaro); non altro (Mt 6:24; Lc 16:13).
Se pensiamo alle dinamiche che muovono la geopolitica mondiale, ci rendiamo conto che la causa ultima di ogni cosa che si fa è la ricchezza; chi è lontano da Dio è spinto dall'istinto del possesso, anche a discapito dei più miseri. Tutte le ideologie dietro le quali si nascondono nobili valori sono sempre manovrate da potenti lobby finanziarie.
Nel Regno di Dio dovrebbero vigere leggi totalmente opposte alle grette logiche di Satana. Se trattiamo il momento dell'offerta come quello dell'elemosina e, dentro di noi, sentiamo crescere opposizione e cattivi sentimenti, dovremmo allarmarci. A chi stiamo offrendo? Al Dio che non ci ha risparmiato il Suo prezioso Figlio o alla persona che conterà l'offerta alla fine dell'incontro?
Un'ultima osservazione. Se ci prestiamo volentieri a vari tipi di servizio ecclesiale, ma storciamo il naso quando si tratta dell'offerta, c'è qualcosa che non va. Infatti, la Parola parla del credente come "sacrificio vivente" (Ro 12:1), cioè come una persona che ha messo tutto sull'altare, e non solo una parte di sé. Energia, tempo, capacità, servizio, famiglia, lavoro, denaro: ogni aspetto della vita deve essere arreso a Cristo. Ricordo un pastore che, prima di battezzare i credenti, chiedeva loro se intendessero entrare in acqua con o senza portafoglio!
Scherzi a parte, cerchiamo di capire se stiamo servendo Dio, o noi stessi.
La questione della decima
Uno dei dibattiti più accesi tra il popolo cristiano è la questione se si "debba" ancora dare la decima; motivazione: "non siamo più sotto la Legge".
Nel dare una risposta, esploreremo queste tre grandi verità bibliche:
· La decima è una consuetudine antecedente la Legge
· La decima appartiene a Dio
· La decima è un principio di benedizione
1. La decima veniva praticata già prima della Legge mosaica.
In Genesi 14:18-20, leggiamo: "Allora Melchisedek, re di Salem, portò del pane e del vino; egli era sacerdote del Dio altissimo. E lo benedisse dicendo: 'Benedetto sia Abramo dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra! E benedetto sia il Dio altissimo che ha dato i tuoi nemici nelle tue mani!' E Abramo gli diede la decima di tutto".
In questo episodio, Abramo, dopo aver ottenuto una vittoria militare, dà una decima (10%) del bottino a Melchisedek, sacerdote del Dio altissimo, che, come dimostrato in Ebrei 5-7, è figura di Gesù Cristo. Si tratta di un gesto di onore e riconoscenza verso Dio, anteriore a Mosè e sganciato da leggi o prescrizioni.
Anche il nipote di Abramo, Giacobbe, dopo il famoso sogno della scala posta tra cielo e terra, "fece un voto, dicendo: 'Se Dio sarà con me e mi proteggerà durante il viaggio che sto facendo, se mi darà pane da mangiare e vestiti da indossare, se io tornerò sano e salvo alla casa di mio padre, allora il Signore sarà il mio Dio, e questa pietra che io ho posto come colonna sarà la casa di Dio, e di tutto ciò che mi darai, certamente io ti darò la decima'" (Gn 28:20-22).
Possiamo fare qualche osservazione. In entrambi i casi, la decisione di dare la decima non arriva subito, ma in seguito a un incontro significativo con Dio, a una rivelazione maggiore della Sua sovranità che sancisce una relazione più stretta con Lui.
Dobbiamo chiedere a Dio di illuminarci su questo aspetto, per compiacerlo totalmente. Se siamo veramente figli di Abramo (Ga 3:7; Ro 4:11-12), non possiamo pretendere soltanto di ereditare: dobbiamo anche dare.
E nel Nuovo Testamento?
Qualcuno potrebbe obiettare che lì non vediamo nessuno versare la decima. E' corretto: la Chiesa primitiva di Gerusalemme, infatti, aveva deciso di vendere ogni cosa e consegnare il ricavato ai piedi degli apostoli, per far sì che fossero loro a decidere come sovvenire alle necessità di tutti: "Tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e i loro beni e li distribuite a tutti, secondo il bisogno di ciascuno" (At 2:44-45).
Questo implicò che i cristiani di Gerusalemme attraversassero periodici momenti di difficoltà e dovessero essere sostenuti, a loro volta, dalle Chiese di Corinto e di Roma (1 Co 16:1-3; Ro 15:25-27). E' chiaro, quindi, che essi non ottennero un premio materiale per la loro scelta di vita, ma sicuramente ebbero una ricompensa più grande nei luoghi celesti (Ap 3:7-12).
La domanda è: saremmo, noi, disposti a praticare questo stile di vita? A dare tutto nel senso di perdere tutto?
Potremmo inquadrare la decima come "il minimo" rispetto alla scelta di vita più radicale dei cristiani di Gerusalemme. A noi le conclusioni!
2. La decima non è nostra, ma di Dio
Si noti questo passo in Levitico 27:30-32: "Ogni decima della terra, sia del raccolto del suolo, sia del frutto degli alberi, appartiene al Signore; è cosa sacra per il Signore. Se qualcuno vuole riscattare qualcosa della sua decima, aggiunga un quinto del suo valore. Ogni decima di grosso e di minuto bestiame, di tutto ciò che passa sotto il bastone del pastore, sarà consacrata al Signore".
In Malachia 3:8-9, addirittura, Dio accusa il popolo di Israele di derubarlo: "Un uomo potrà forse rubare a Dio? Eppure voi mi avete rubato! Ma voi dite: 'In che modo ti abbiamo rubato?' Nelle decime e nelle offerte. Siete sotto maledizione, perché mi rubate, la nazione intera.
Il fatto che Dio chiami il mancato versamento delle decime un "furto", suggerisce che quel denaro non è nostro, ma di Dio. Lui ce lo presta per vagliare la nostra fede, e vedere se glielo restituiamo oppure ce ne appropriamo. Si tratta, appunto, di una "restituzione", e non di un'offerta qualsiasi.
Se, quindi, ci sentiamo derubati, dobbiamo cambiare il nostro punto di vista: è Dio che si aspetta che gli ridiamo del Suo, e lo ha decretato a chiare lettere nella Sua Parola.
3. La decima apre le porte della benedizione economica
Leggiamo la conclusione del passo precedente (Malachia 3:10): "Portate tutte le decime nella casa del tesoro, affinché ci sia cibo nella mia casa; e mettete alla prova me in questo, dice il Signore degli eserciti: se io non vi aprirò le cateratte del cielo e non riverserò su di voi una benedizione talmente grande che non avrete abbastanza spazio per riceverla".
Non ci sono obblighi o divieti, nella Bibbia, che non siano strettamente finalizzati a una benedizione per chi ubbidisce. Abramo e Giacobbe, nel caso specifico, ebbero figli, animali, potere e ricchezze smisurate; ma, soprattutto, la loro fama si sparse su tutta la terra, perché era evidente che Dio li accompagnava in ogni cosa.
Ovviamente non dobbiamo praticare la decima per ottenere cose in cambio; dobbiamo farlo per onorare la Sua Parola, perché Dio conosce a fondo le motivazioni del nostro cuore (Gv 2:24-25).
In conclusione, la questione delle decime va oltre il semplice aspetto finanziario; tocca la nostra fede, la nostra relazione con Dio e la nostra comprensione della Sua sovranità su ogni aspetto della nostra vita. Dare la decima non è un atto imposto, ma una risposta di riconoscimento e gratitudine verso Dio per le Sue benedizioni. Non si tratta di un obbligo, ma di un'opportunità di metterci alla prova nella nostra fiducia in Lui. Quando comprendiamo che le decime non ci appartengono, ma sono un atto di restituzione verso Dio, apriamo le porte alla vera benedizione. Come Abramo e Giacobbe, anche noi siamo chiamati a vivere una relazione stretta con Dio, riconoscendo che ogni cosa che abbiamo è un Suo dono. La decima diventa così un segno del nostro cuore disposto a servire Dio in ogni area della nostra vita.

LA CREMAZIONE E' AMMESSA DALLA BIBBIA?
La cremazione dei defunti è una pratica da sempre in uso presso diverse culture, come quella induista, e, da qualche anno, si sta riscoprendo anche in Occidente, sia per motivi economici che di altra natura (ne parleremo verso la fine).
Per adesso, precisiamo che la Bibbia non condanna espressamente la cremazione, ma ci mette in guardia da alcuni problemi etici che essa potrebbe sollevare, e ai quali, come cristiani, dobbiamo prestare attenzione.
Nella cultura ebraica, la cremazione non era in uso, anche se, come vedremo, la Bibbia ci mostra delle eccezioni dovute a contingenze straordinarie; erano, invece, utilizzate l'inumazione (seppellimento a terra) e la tumulazione (deposizione della salma all'interno di una caverna/grotta), anche se, dal testo, non sempre risulta chiaro il confine tra le due pratiche. Per esempio, Sara fu seppellita "nella caverna del campo di Makpelah di fronte a Mamre" (Gn 23:19); Mosè "fu sepolto nella valle, nel paese di Moab, di fronte a Bet-Peor; nessuno fino ad oggi ha saputo dove sia la sua tomba" (De 34:6): non è certo se i corpi fossero stato solo deposti, oppure seppelliti all'interno della tomba.
In ogni caso, il tipo di sepoltura aveva molto a che fare con la cultura del posto, e non ci risultano tentativi di svincolarsi da tali tradizioni: piuttosto, ci sono esempi di commistione di più riti.
Per esempio, in Genesi 50:2-3, è scritto che Giuseppe, quando Giacobbe morì, "ordinò ai suoi medici di imbalsamare suo padre. I medici imbalsamarono Israele e vi impiegarono quaranta giorni, perché tanti ne occorrono per l'imbalsamazione. Gli Egiziani lo piansero settanta giorni". Poi, però, Giuseppe chiese e ottenne di seppellire il padre a Canaan, nella stessa caverna in cui si trovava la bisnonna Sara (Gn 50:12). Lo stesso Giuseppe fu imbalsamato in Egitto e poi, per fede, ordinò che le proprie ossa fossero trasportate a Canaan (Eb 11:22): l'imbalsamazione era un rito egizio, mentre l'inumazione/tumulazione apparteneva alla cultura ebraica.
Si può osservare chiaramente che c'era, in ogni caso, un'estrema attenzione per il corpo del morto, per quanto non esistesse alcun divieto, nella Legge, di fare ricorso alla cremazione; piuttosto, si deduce una premura per il seppellimento tempestivo del cadavere, onde evitarne il disonore, persino nel caso in cui il defunto fosse stato un criminale (De 21:22-23). Infatti, quando si intendeva procurare disonore a un nemico, si procedeva a bruciarne il cadavere (Gs 7:25-26; Amos 2:1).
Tuttavia, come accennato all'inizio, in un unico caso si procedette alla cremazione dei defunti proprio per il motivo opposto, cioè per salvaguardarne l'onore. In 1 Samuele 31:11-12, è scritto che "quando gli abitanti di Iabes di Galaad udirono ciò che i Filistei avevano fatto a Saul, tutti gli uomini valorosi si alzarono, andarono tutta la notte, presero il corpo di Saul e i corpi dei suoi figli dalle mura di Beth-Shan, e vennero a Iabes, e là li bruciarono. E presero le loro ossa, e, sepoltili sotto un albero a Jabes, digiunarono per sette giorni".
Sembra incredibile che degli Israeliti avessero scelto di bruciare i cadaveri di altri Israeliti, e le ipotesi sono fioccate; tuttavia, leggendo il seguito, si capisce il perché; infatti, in 2 Samuele 2:5, vediamo che Davide benedisse i Galaditi per aver degnamente sepolto Saul e i figli: "Siate benedetti dall'Eterno, per aver usato questa benignità a Saul, vostro signore, dandogli sepoltura!". Davide non sembra impressionato dal fatto che i cadaveri abbiano subito una cremazione; nel cap. 21, vediamo che egli recupererà le ossa della famiglia di Saul per dar loro sepoltura nella tomba di famiglia. L'idea dei Galaditi di bruciare i corpi, a questo punto, potrebbe essere stata funzionale proprio al recupero successivo delle ossa, operazione che sarebbe stata difficile con i corpi in decomposizione.
Inumazione, tumulazione, imbalsamazione e cremazione sono tutte pratiche impiegate dal popolo ebraico, e a riguardo della loro validità la Legge non dice granché: il denominatore comune sembra essere esclusivamente la preoccupazione per il destino delle ossa -e non di tutto il corpo- che dovevano rientrare in patria e nella tomba di famiglia.
Il motivo di tutto ciò, tuttavia, è di tipo prettamente etnico e culturale, e non teologico. Giuseppe voleva che le proprie ossa fossero trasportate a Canaan per entrare simbolicamente nella Terra Promessa. Non è, quindi, credibile l'ipotesi che il corpo dovesse rimanere integro per permettere la resurrezione finale, anche perché gli Ebrei erano consapevoli che il corpo sarebbe tornato alla polvere (Ec 3:18-20; Ez 18:4).
Naturalmente, questo vale anche per noi. Cosa dire, infatti, dei martiri bruciati sul rogo? Perderanno il premio per colpa dei loro carnefici?! Come cristiani, non possiamo ritenere una simile credenza, che è assurda e priva di fondamento biblico.
Abbiamo anche potuto osservare che il tipo di rituale utilizzato sembra essere subordinato alla preoccupazione di onorare il defunto e la sua famiglia. L'attenzione non era sul corpo in sé e per sé, ma sulla preservazione dell'onore della stirpe, rappresentato simbolicamente dalla tomba che deve accoglie le ossa di tutti gli esponenti.
La cultura cristiana ha proseguito con la tradizione dell'inumazione/tumulazione, soprattutto per imitare il modello della sepoltura di Gesù; ma è scontato che, in qualche misura, abbia inciso anche il motivo neotestamentario ricorrente della resurrezione dei corpi.
Veniamo a noi. Se queste sono le premesse, non ci sarebbe alcun impedimento alla cremazione.
Tuttavia, come cristiani dobbiamo porci, necessariamente, due domande:
- Perché preferiremmo essere cremati?
- Come reagirebbe la coscienza altrui?
1. Se il problema è la paura di svegliarci nella tomba, dobbiamo intervenire su questa abnorme mancanza di fede e chiedere perdono a Dio. Il punto della questione, infatti, non è se la Bibbia permetta la cremazione o meno, ma se la nostra fede ci sorregga abbastanza da farci rimanere in piedi fino all'ultimo giorno. Stiamo attenti a non farci dominare da simili pensieri che non possono venire da Dio!
2. La Bibbia non ci dà il permesso di fare ciò che vogliamo solo perché la cosa non tange nessuno, ma ci invita a salvaguardare la coscienza altrui. "Ogni cosa mi è lecita, ma non ogni cosa è vantaggiosa (1 Co 12:1); "Badate però che questa vostra libertà non divenga un intoppo per i deboli (…) Ora, peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. Perciò, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non scandalizzare il mio fratello" (1 Co 8:9-13). Se, quindi, nella mentalità collettiva, la cremazione suscita sdegno o scalpore, non conviene optare per essa, in quanto è prioritario salvaguardare la coscienza del più debole.
Ricapitolando:
-La Bibbia non vieta la cremazione e ammette la possibilità che la cultura incida sul rito funebre.
- Sono consentite tutte le pratiche funebri che onorino il defunto e la sua famiglia.
-Non è vero che l'incenerimento di un corpo ne impedisce la risurrezione finale.
-Non dovremmo scegliere la cremazione per mancanza di fede.
-Dovremmo, prima di effettuare la scelta, priorizzare la salvaguardia della coscienza altrui.

MATRIMONI MISTI:
SONO POSSIBILI, SECONDO LA BIBBIA?
Il matrimonio è un'istituzione divina (Ge 2:18-24; Mt 19:5-6), per cui la sua validità prescinde dal credo dei coniugi: un matrimonio -purché sia ufficialmente e pubblicamente riconosciuto dalle istituzioni civili e/o dalla comunità di appartenenza (v. Quando una coppia si considera sposata e quando no?)- è valido se è cattolico, islamico, buddhista, animista e persino ateo.
Tuttavia, il matrimonio cristiano è disciplinato dalla Parola di Dio- per quanto determinate indicazioni vengano spesso sottovalutate, se non del tutto ignorante, anche dai credenti più "navigati".
In 2Corinzi 6:14-17, a proposito del rapporto con i non credenti, l'apostolo Paolo ammonisce fermamente la Chiesa con queste parole:
"Non vi mettete con gli infedeli sotto un giogo diverso, perché quale relazione c'è tra la giustizia e l'iniquità? E quale comunione c'è tra la luce e le tenebre? E quale armonia c'è fra Cristo e Belial? O che parte ha il fedele con l'infedele? E quale accordo c'è tra il tempio di Dio e gli idoli? Poiché voi siete il tempio del Dio vivente, come Dio disse: «Io abiterò in mezzo a loro, e camminerò fra loro; e sarò il loro Dio, ed essi saranno il mio popolo». Perciò «uscite di mezzo a loro e separatevene, dice il Signore, e non toccate nulla d'immondo, ed io vi accoglierò, e sarò come un padre per voi, e voi sarete per me come figli e figlie, dice il Signore Onnipotente».
Come si vede, prima ancora di essere un problema per il matrimonio, la comunione con i non cristiani è un intoppo per la propria fede, in quanto apre le porte a un mondo spirituale negativo per il quale Cristo ha sofferto ed è morto.
Si noti che Paolo ne fa una questione teologica, perché afferma che:
- esistono solo due possibili strade: o la giustizia, o l'iniquità; o la luce, o le tenebre (v.14); o Cristo, o Belial; o il fedele, o l'infedele (v.15); o il tempio di Dio, o gli idoli (v.16): inutile illudersi di altre casistiche;
- rispetto ai non credenti, non possono esserci né relazione, né comunione (v.14), né armonia, né parte (v.15), né accordo (v.16);
- il credente, essendo il tempio del Dio vivente (v.16), non deve avere contatto con ciò che è impuro (v.17), perché Dio rivendica la nostra appartenenza esclusiva a Lui;
-l'indicazione per il credente è quella di separarsi da chi non segue la via di Cristo, il che è condizione necessaria per essere accolti da Dio come figli (v.17).
Come, dunque, può riuscire un matrimonio, se queste sono le premesse, dal momento che lo scopo del Signore è fare dei due coniugi "una sola carne"? Inevitabilmente, uno dei due seguirà l'altro, e -ahimè- non sempre sulla strada di Cristo.
L'ammonimento di Paolo fa eco alla prescrizione mosaica contenuta in Deuteronomio 7:1-4, da cui è possibile dedurre che Dio non ha mai cambiato idea circa i rapporti con i non credenti:
"Quando l'Eterno, il tuo DIO, ti avrà introdotto nel paese in cui entri per prenderne possesso, e avrà scacciato davanti a te molte nazioni: gli Hittei, i Ghirgasei, gli Amorei, i Cananei, i Perezei, gli Hivvei e i Gebusei (…) Non contrarrai matrimonio con loro. Non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me per servire altri dèi, e l'ira dell'Eterno si accenderebbe contro di voi e vi distruggerebbe subito".
Urgono, a questo punto, due chiarimenti:
1. Nella vita quotidiana abbiamo a che fare, per forza di cose, con moltissimi non credenti, tra cui familiari e parenti. Dobbiamo escluderli dalla nostra vita?
No. La Bibbia condanna l'adesione volontaria a uno stile di vita non biblico e la condivisione di esso con persone non rinate in Cristo; questo è ben diverso dal rapporto finalizzato:
- alla cura parentale. Anzi, la Parola dice che"se uno non provvede ai suoi, e principalmente a quelli di casa sua, ha rinnegato la fede ed è peggiore di un incredulo" (1 Timoteo 5:8). In questo caso prevale il dovere di assistenza, che è slegato dal credo della persona.
- alla collaborazione lavorativa. Il lavoro è una necessità imposta all'uomo da Dio (Gn 3:17-19), il quale condanna la pigrizia (Proverbi 18:9) e benedice chi investe i propri talenti (Mt 25:14-30). Il lavoro, infatti, se svolto bene, è un'occasione per spargere una buona testimonianza presso i perduti, favorendo persino l'accesso alle autorità e la loro direzione (Daniele, Giuseppe…).
-alla testimonianza di fede. L'evangelizzazione ci porta a diretto contatto con il mondo dei perduti, dal quale non possiamo uscire (Gv 15:18-21) ma Gesù ci ha assicurato che, se ci facciamo lavare i piedi da Lui, possiamo evitare di rimanere compromessi con il peccato (Gv 13:8). Sarebbe un grave errore, dunque, darsi all'isolamento o all'eremitaggio per evitare di contaminarsi, in quanto la nostra chiamata è là fuori.
2. E se una persona è venuta a Cristo dopo aver contratto matrimonio con un non credente? Deve lasciarlo?
No. Lo stesso Paolo, in 1 Corinzi 7:12-16, consiglia:
"Ma agli altri dico io, non il Signore: se un fratello ha una moglie non credente ed ella acconsente ad abitare con lui, non la mandi via; e la donna che ha un marito non credente, se egli consente ad abitare con lei, non mandi via il marito; perché il marito non credente è santificato nella moglie, e la moglie non credente è santificata nel marito credente; altrimenti i vostri figli sarebbero impuri, mentre ora sono santi. Però, se il non credente si separa, si separi pure; in tali casi, il fratello o la sorella non sono obbligati a continuare a stare insieme; ma Dio ci ha chiamati a vivere in pace; perché tu, moglie, che sai se salverai tuo marito? E tu, marito, che sai se salverai tua moglie?".
Qui è evidente che si parla di mariti e mogli convertitisi dopo un matrimonio non cristiano: essi, infatti, fanno sì che il coniuge si ritrovi, suo malgrado, in una situazione di coppia totalmente nuova, al punto da poter decidere di lasciare il credente (v.12, "se ella consente; v.13, "se egli consente"; v.15, "se si separa"). Come comportarsi?
L'apostolo suggerisce al coniuge che si converte di non separarsi e di continuare la convivenza con il non credente, e ancora una volta il motivo è teologico: il credente santifica il coniuge ed i figli (v.14), cioè influenza e preserva, con il proprio stile di vita, tutta la famiglia, che può, in tal modo, venire a Cristo (v.16).
Quest'ultimo caso, ovviamente, è diverso da quello in cui il credente scelga di iniziare una relazione sentimentale con un non credente, ignorando di proposito tutti gli avvertimenti della Parola di Dio: un conto è ritrovarsi in una situazione, un conto è sceglierla volontariamente.
Crediamo, dunque, che il matrimonio misto non rientri nella piena volontà di Dio. Vogliamo anche aggiungere che non è la frequentazione di una chiesa evangelica a garantire la serietà dell'esperienza di fede di un credente, bensì il perseverare in essa privatamente e pubblicamente, con frutti duraturi alla gloria di Dio. Pertanto, la riuscita di un matrimonio dipende piuttosto da quanto spazio Cristo ha conquistato realmente nei cuori dei due contraenti.
Dio ci benedica!

DEPRESSIONE:
COSA DICE LA BIBBIA?
Prima di rispondere, dobbiamo necessariamente precisare che affronteremo l'argomento dal punto di vista prettamente spirituale, poiché non abbiamo competenze mediche. Il nostro intento è indagare le Scritture e cercare in esse rivelazione, partendo dal presupposto che ogni cosa che noi definiamo "problema" ha origine nel mondo spirituale e solo in esso può essere risolto (Ef 6:12).
Che cos'è la depressione? Di seguito riportiamo una definizione clinica:
"La depressione è una condizione clinica caratterizzata da una persistente sensazione di tristezza, disinteresse o perdita di piacere nelle attività quotidiane. È un disturbo dell'umore che può influenzare il modo in cui una persona pensa, si sente e gestisce le attività quotidiane. La diagnosi della depressione si basa su criteri specifici definiti nei manuali diagnostici come il DSM-5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, Quinta Edizione).
Ecco alcuni dei sintomi comuni della depressione:
- Umore depresso: Sentimenti persistenti di tristezza, disperazione o vuoto.
- Perdita di interesse o piacere: Riduzione del piacere o interesse nelle attività che una volta erano gradite.
- Cambiamenti nel sonno: Disturbi del sonno, come insonnia o ipersonnia.
- Cambiamenti nell'appetito: Perdita di peso o aumento di peso significativo senza una dieta specifica.
- Fatica o perdita di energia: Sensazione costante di stanchezza o mancanza di energia.
- Sentimenti di colpa o inutilità: Pensieri negativi su sé stessi, sensazione di colpa e inutilità.
- Difficoltà di concentrazione o indecisione: Problemi nella capacità di concentrarsi o prendere decisioni.
- Pensieri suicidi o morbosità: Pensieri ricorrenti sulla morte o sul suicidio".
Quanto alle cause, ci sembra di capire che possano incidere fattori di varia natura, non solo ambientale o psicologica, ma anche biologica (ad esempio squilibri ormonali) o genetica (familiarità); in quest'ultimo caso, non è possibile identificare un vero e proprio evento scatenante.
Tutto questo ci serve innanzitutto a demolire un grave pregiudizio, e cioè che la depressione sia sempre un disturbo collegato a una vita spirituale assente o debole. Vedremo che non è così.
Ma cosa pensano i cristiani della depressione?
Abbiamo consultato diversi articoli, e abbiamo notato che, rispetto a qualche anno fa, si tende sempre di più a normalizzare il concetto di depressione: siamo passati dall'idea diun male attaccabile solo con preghiere di liberazione a quella di una patologia come tante, curabile con farmaci adeguati, senza tabù. Ovviamente, il ruolo centrale di Dio nella guarigione rimane indiscusso.
Tuttavia, a nostro avviso, non tutti i comportamenti depressivi possono essere riferiti alla vera e propria malattia depressiva. In particolare, la Bibbia ci lascia intravedere diverse casistiche:
a. caratteri/stili depressivi (non patologici)
b. stati depressivi dipendenti da circostanze esterne (transitori e non patologici)
c. stati depressivi dipendenti anche da circostanze interne (prolungati e potenzialmente patologici)
d. legami spirituali di morte e di suicidio (sempre patologici)
Ora, se non cerchiamo di capire bene la differenza tra tutti questi casi, non potremo essere d'aiuto per nessuno. La Parola, come al solito, ha una risposta a tutto, ma dobbiamo avere il coraggio di studiarla in verità.
a. Caratteri/stili depressivi: Geremia e il credente sfiduciato
Il lamento può essere sia un sintomo di zelo, sia di lassismo spirituale.
Il profeta Geremia è spesso associato a un tono di tristezza, dolore e lamentazione. Il suo ministero profetico si svolse durante un periodo di profonda crisi per il popolo di Israele, particolarmente durante il regno di Giuda: Geremia dovette annunciare giudizi divini, predire la distruzione di Gerusalemme e l'esilio del popolo, il che contribuì ad acuire il suo carattere malinconico.
Questi sono alcuni dei suoi lamenti: "Oh se la mia testa fosse acqua, e i miei occhi una fonte di lacrime! Piangerei giorno e notte gli uccisi della figlia del mio popolo" (Gr 9:1); "Guai a me, madre mia, che mi hai partorito uomo di contese e di liti per tutto il paese! Non ho prestato né a prestito, né alcuno ha prestato a me, e tutti mi maledicono" (Gr 15:10); "lamento di Geremia", in cui esprime il suo desiderio di non essere mai nato (Gr 20:7-18); "Ma se voi non date ascolto, la mia anima piangerà in segreto a causa del vostro orgoglio; gli occhi miei piangeranno amaramente e coleranno lacrime, perché il gregge del Signore sarà condotto in cattività" (Gr 13:17). A questo si aggiunge un intero libro di "Lamentazioni", che continua a effondere dolore per la sorte del popolo ebraico.
Geremia, dunque, ammette di avere una tendenza alla contesa. Il suo modo di esternare la disapprovazione e l'angoscia è il lamento, che, a differenza di altri profeti, è un tratto dominante, è la forma d'espressione privilegiata: questo significa che il modo di pensare di Geremia ne è fortemente condizionato.
Geremia, quindi, ha uno stile depressivo, ma non soffre di depressione; nel cap. 29:11, il profeta dice che Dio ha "pensieri di pace e non di male, per darvi un futuro e una speranza". Al di là del suo modo di essere, Geremia non è un personaggio negativo e conosce bene il Suo Dio, che è speranza.
Tuttavia, quando il lamento è generato da cause non spirituali, come l'eccesso di preoccupazione o la scarsa fede in Dio, bisogna intervenire. Paolo scrive: "Non affannatevi di nulla, ma in ogni cosa fate conoscere le vostre richieste a Dio in preghiere e suppliche, accompagnate da ringraziamenti. E la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù" (Fli 4:6-7); altrove, esorta i credenti a "rallegrarsi sempre, pregare senza posa, in ogni cosa rendere grazie: questa, infatti, è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi" (1 Te 5:16-18).
Questi passaggi suggeriscono ai credenti di concentrarsi sulla preghiera, sulla gratitudine e sulla fiducia in Dio, anziché lamentarsi.
b. Stati depressivi dipendenti da circostanze esterne: Elia e Giobbe (non riteniamo di dover prendere in considerazione altri casi, considerati depressi solo per qualche espressione di sconforto).
Elia e Giobbe non avevano alcuna colpa di quanto gli sarebbe capitato: anzi, possiamo dire che la loro giustizia scatenò l'inferno; e scatenò anche, in loro, degli stati di ansia, depressione e desiderio di morte.
In seguito alla feroce persecuzione di Jezebel, Elia disse, infatti: "'Signore, non ne posso più! Toglimi la vita, perché non valgo più dei miei padri'. Si coricò e si addormentò" (1Re 19:4-5). Possiamo immaginare che Elia si sentisse stanco e solo, oppresso dalla paura per la coppia reale che gli dava la caccia, e per un momento pensò che non valesse la pena continuare così. Ma poi Dio si manifestò, fornendogli del cibo che gli diede la forza per camminare quaranta giorni e quaranta notti fino all'Oreb, e rassicurandolo che c'erano altre settemila persone come lui che non avevano piegato il ginocchio a Baal. Elia prese coraggio e portò a termine la sua missione.
La storia di Giobbe ce lo mostra triste e depresso dopo aver perso tutti i figli e gli averi: "Andò a vivere tra i rifiuti e la cenere" (Gb 2:6); "maledisse il giorno in cui nacque" (Gb 3:2); "Invece di mangiare mi lamento, non posso trattenere le mie grida, perché mi piombano addosso i mali che temo, mi capita proprio quel che mi spaventa. Per me non c'è calma né riposo, conosco solo tormenti" (Gb 3:24-26). Giobbe, però, non si lasciò mai andare del tutto, anzi continuò a dialogare con Dio e affermò di essere certo che il Suo Redentore lo avrebbe riscattato dalla polvere (Gb 19:25-29), come infatti avvenne.
Come si vede, per tutto il tempo della loro angoscia, questi uomini hanno mantenuto viva la speranza in Dio, Lo hanno cercato, Lo hanno interrogato; Dio è sempre stato una costante, non è mai stato messo in discussione ed è intervenuto al tempo opportuno, apportando soluzioni e consolazione.
c. Stati depressivi dipendenti anche da circostanze interne: Davide
A differenza di Elia e Giobbe, Davide andò incontro a incredibili sofferenze anche a causa dei propri peccati. Le espressioni di amarezza che trapelano dai Salmi sono davvero numerose: "Sono esausto . . . io sono sfinito. Mi sento sconvolto", "Il dolore mi toglie le forze, passo le notti nel pianto, mi trovo in un mare di lacrime. Sono stanco" (Sl 6:3,4,7,8). "Fino a quando vivrò nell'angoscia, tutto il giorno con il cuore in pena?" (Sl 13:3). "Sono un uomo distrutto: nella pena si consumano i miei occhi, la mia gola, tutto il mio corpo. La mia vita si trascina nei tormenti, nel lamento se ne vanno i miei anni. Per il dolore mi mancano le forze, sento disfarsi anche le mie ossa, sono deriso dai miei avversari, e più ancora, dai miei vicini. Faccio paura a chi mi conosce, fugge via chi m'incontra per strada. Sono dimenticato da tutti come un morto, come un vaso rotto da buttar via" (Sl 31:10-13). "Sono immerso nelle colpe: un peso troppo grande per me", "Cammino curvo e sono sfinito, passo i miei giorni nel lutto", "Mi sento schiacciato e abbattuto" (Sl 38:5,7,9). "Mi sono chiuso nel silenzio, ho taciuto anche più del necessario, ma il mio dolore è diventato acuto. Dentro di me avevo un gran fuoco, più pensavo e più mi sentivo scoppiare" (Sl 39:3,4). "Mi sommergono molti mali, non li posso neppure contare. Le mie colpe mi opprimono, e non vedo più nulla. Sono più numerose dei miei capelli: ho perso ogni coraggio" (Sl 40:13). "Il mio peccato è sempre davanti a me" (Sl 51:5). "Mi sento scoppiare il cuore, mi ha afferrato il terrore della morte. Sono pieno di paura e timore, schiacciato dallo spavento" (Sl 55:5,6). "L'acqua mi arriva alla gola. Affondo in un mare di fango, non ho più un punto d'appoggio; sono caduto in acque profonde, la corrente mi trascina via! Sono sfinito", "Sono povero e afflitto" (Sl 69:2-4,30). "Mi sento mancare il respiro, il mio cuore viene meno" (Sl 143:4).
Le espressioni più tristi sono quelle in cui Davide ammette di essere schiacciato dal peso del proprio peccato; infatti, mentre le prove permesse da Dio per formarci sono un carico leggero (Mt 11:30) e non vanno oltre le nostre forze (1Co 10:13), le conseguenze per gli operatori di scandali possono essere insopportabili (Mr 9:42).
Alcuni peccati commessi da Davide scatenarono conseguenze terribili, come la morte prematura di due dei suoi figli, di cui un neonato, la violazione pubblica delle sue concubine da parte del figlio Absalom e la morte per peste di settantamila persone. Tutto questo non poté lasciare indifferente il re, che venne quasi sopraffatto dal dolore.
Infatti, dal numero e dalla frequenza dei lamenti, oltre che dalla loro intensità, possiamo supporre che Davide avesse sofferto di una vera e propria depressione che lo costrinse a prolungati stati di prostrazione e inattività.
Nonostante ciò, Davide non smette di sfogarsi attraverso la preghiera e la lode dei Salmi, non smette di cercare una risposta da parte di Dio e alla fine ammette che nessun male ha mai potuto vincerlo (Sl 129:2).
L'apostolo Paolo affermerà: "Noi siamo tribolati in ogni maniera, ma non ridotti all'estremo; perplessi, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; atterrati, ma non uccisi" (2Co 4:8-9).
La storia di Davide ci induce a fare un paio di osservazioni relative alla responsabilità personale.
1. Alcuni stati depressivi profondi possono essere provocati dal rimorso, dal senso di colpa o di vergogna per le proprie colpe. In questo caso, è necessario ammettere l'errore, riconciliarsi con Dio e cambiare direzione. "Non ritenerti savio ai tuoi occhi, temi l'Eterno e ritirati dal male; questo sarà guarigione per i tuoi nervi e un refrigerio per le tue ossa" (Pr 3:7-8).
Il noto psicologo canadese Jordan Peterson è stato criticato per aver ribadito che una delle chiavi per uscire fuori dal loop depressivo è smettere di auto percepirsi come vittima e iniziare a riconoscere le proprie responsabilità, mettendo in ordine la propria vita attraverso determinati step.
Sarebbe, quindi, un errore non aiutare la persona in questione a uscire fuori dal vittimismo e dall'abitudine di scaricare le responsabilità su altri soggetti.
2. L'elemento che ha impedito a Davide di sprofondare in un baratro peggiore è stato la ferma volontà di mantenere un dialogo costante con Dio e di non dimenticare il bene da Lui ricevuto. "Benedici, anima mia, l'Eterno e non dimenticare alcuno dei suoi benefici. Egli perdona tutte le tue iniquità e guarisce tutte le tue infermità, riscatta la tua vita dalla distruzione e ti corona di benignità e di compassioni; egli sazia di beni la tua bocca e ti fa ringiovanire come l'aquila" (Sl 103:2-5).
Viceversa, Giuda si fece prendere dal laccio del nemico quando disperò del perdono di Dio, perché non aveva conosciuto a sufficienza il Maestro e Gli aveva preferito il denaro. Questo lo portò alla morte.
Finora, abbiamo preso in esame stati depressivi che possono essere combattuti attraverso una ferma e costante fiducia in Dio e nella Sua infinita misericordia. Questo implica che la persona coinvolta gioca un ruolo attivo nella propria guarigione.
Cosa possiamo dire, invece, di quegli stati depressivi che sembrano non avere spiegazione?
d. Legami spirituali di morte e di suicidio: il Geraseno e il fanciullo con spirito sordo e muto
In Marco 5:1-20 vediamo un abitante di Gerasa legato da uno spirito di morte che lo costringe a vivere nei sepolcri. È scritto che il Geraseno "era spinto dal demone nei deserti"; in qualche modo, quindi, quest'uomo aveva una predilezione per i luoghi isolati, dove il diavolo poteva tormentarlo indisturbato. Gesù lo libera mandando gli spiriti maligni in un branco di porci: infatti, si trattava di una "legione" di demoni, e non di uno solo.
Anche nel caso del fanciullo indemoniato, notiamo in lui la presenza di più demoni; uno di essi è uno spirito di suicidio ("...e spesse volte lo ha gettato anche nel fuoco e nell'acqua per farlo perire", Marco 9:22), mentre gli altri sono lo spirito sordo e muto. Quando i discepoli chiedono a Gesù perché essi non siano riusciti a liberare il fanciullo, Gesù risponde che, contro certe specie di demoni, sono necessari il digiuno e la preghiera.
Tutti questi spiriti malvagi sono assoggettati a colui che Gesù definisce "omicida fin dal principio" (Giovanni 8:44): l'unico modo per vincere costui è attivare le strategie del combattimento spirituale.
Quando il problema ricorre nella stirpe, si parla di legame generazionale (Esodo 20:5; 34:7; Numeri 14:18; Deuteronomio 5:9); in questo caso, tocca alla chiesa, o a ministri specifici, intercedere per spezzarlo, mentre la persona coinvolta deve impegnarsi a vivere una vita consacrata a Dio (Ro 12:1-2).
In questo caso, la responsabilità individuale è relativa, perché la forza operante soggioga la volontà umana; fondamentale, invece, è il ruolo dei credenti, che agiscono per fede. Il padre del fanciullo indemoniato supplicò Gesù di sovvenire alla propria incredulità, perché Egli aveva affermato che la fede può ogni cosa.
Prima di concludere la nostra trattazione, vogliamo fare una doverosa precisazione che riguarda le malattie di origine organica o genetica. Se l'abbassamento dell'umore è provocato dalla carenza di un determinato elemento nell'organismo, si deve prediligere la via medica. Prendere medicine o integratori è giusto quando la natura si presenta con qualche difetto o compromissione. Per lo stesso motivo, assumiamo farmaci antiipertensivi, antidiabetici, ecc. Questo non esclude che Dio possa guarire in seguito alla preghiera di fede.
Facciamo il punto della situazione:

Ci teniamo a ribadire che il
nome di Gesù è potente da abbattere qualsiasi fortezza e distruggere
qualsiasi legame: Dio "può, secondo la potenza che opera in noi, fare smisuratamente
al di là di quanto chiediamo o pensiamo" (Ef 3:20).
Con questo piccolo contributo, speriamo di poter essere d'aiuto per qualcuno. Dio ci benedica!

COME POSSO SAPERE SE E' DIO CHE MI STA PARLANDO?
"Come è possibile che, nonostante Dio mi avesse parlato chiaramente su una situazione, nella realtà le cose sono andate diversamente?"- ci chiede una nostra lettrice
Partiamo da un presupposto basilare: Dio non può mentire, né può essere infedele alla Sua Parola. Se, quindi, accade che alcune nostre aspettative non vengano soddisfatte, dobbiamo ricercarne la causa solo ed esclusivamente in noi stessi.
Chiediamoci: quella che abbiamo ascoltato era proprio la voce di Dio, o era la voce di qualcun altro?
La Parola di Dio ci mostra, infatti, che possiamo cadere in errore dando retta a voci sbagliate che provengono:
a. dal nemico
b. da noi stessi
a. La voce del nemico
In Genesi 3, vediamo che Satana convince Eva a trasgredire all'ordine di Dio di non mangiare dall'albero della conoscenza del bene e del male, mettendo in discussione la veridicità della Sua Parola. In quel momento, Eva avrebbe dovuto ricordarsi della sovranità di Dio del fatto che Egli non può mentire, piuttosto che cedere alle lusinghe del serpente. Ma perché ciò non avvenne? Perché, prima di essere sedotta dal serpente, Eva lo fu dalla propria concupiscenza. "Poi, quando la concupiscenza ha concepito, partorisce il peccato e il peccato, quando è consumato, genera la morte", Giacomo 1:15-18.
Se diamo retta alla voce del nemico delle nostre anime, è solo perché desideriamo qualcosa per noi stessi: Satana è semplicemente lo strumento più efficace e disponibile per ottenerlo. Faccio un esempio estremo: se io desidero riempire il mio vuoto interiore e non mi lascio guarire dal Signore, quando Satana si presenterà con la sua offerta di vizi e dipendenze non saprò chiudergli la porta in faccia.
Notiamo anche che Adamo ed Eva cercarono di gettare la colpa di quanto accaduto su qualcun altro, ma Dio non li giustificò. Questo ci insegna a cercare le cause dei nostri errori in noi stessi e a dare peso alle nostre responsabilità, ma soprattutto ci ammonisce a non confondere la voce dei nostri desideri con la voce di Dio: se abbiamo dei dubbi riguardo a chi ci stia parlando, non dobbiamo fare altro che consultare la Parola per verificare se ci siano contraddizioni o meno con ciò che "sentiamo".
b. La nostra voce
Mentre Paolo e i suoi discepoli cercavano di evangelizzare in ogni luogo possibile, successe qualcosa di inaspettato: "Mentre attraversavano la Frigia e la regione della Galazia, furono impediti dallo Spirito Santo di annunziare la parola in Asia. Giunti ai confini della Misia, essi tentavano di andare in Bitinia, ma lo Spirito non lo permise loro", Atti 16:6-7.
Stavolta era lo zelo personale dei credenti a muoverli in una direzione sbagliata, e non il nemico. Infatti, Paolo era fermamente convinto che fosse necessario "insistere a tempo e fuor di tempo" (2Tm 4:2); tuttavia, in quel caso non aveva consultato lo Spirito Santo, che aveva altri piani.
Qualcosa del genere successe anche un po' di tempo dopo. In Atti 15, vediamo che Paolo e Barnaba dovettero separarsi in seguito a una forte disputa intorno a Giovanni detto Marco, perché Barnaba lo voleva con sé, ma Paolo era contrario, essendosi costui macchiato di indegnità per averli abbandonati quando erano in Panfilia.
Quando, però Paolo si ritrovò prigioniero a Roma, notiamo che egli diede ordine a Timoteo di prendere Marco, perché gli era "molto utile nel ministero" (2Ti 4:11). Evidentemente, Barnaba aveva avuto ragione a dare a questo discepolo una seconda opportunità! Non possiamo dire che Paolo fosse in malafede o spinto dal nemico, in quanto la Parola ci illustra che egli agì fedelmente ai suoi principi; ancora una volta, però, non aveva fatto i conti con lo Spirito Santo, che intendeva dare a Marco una possibilità di riscatto.
Può capitare, quindi, che, nonostante ciò che intendiamo fare sia buona cosa, essa non coincida con la perfetta volontà di Dio.
Un capitolo a parte merita la questione visioni, sogni e profezie. Ci sono, infatti, nella Parola, molti episodi con visioni e sogni da parte di Dio, ma Egli specifica che, se il messaggio profetico non si compie, è un chiaro segno che esso non proviene da Dio: "Quando il profeta parla in nome dell'Eterno e la cosa non succede e non si avvera, quella è una cosa che l'Eterno non ha proferito; l'ha detta il profeta per presunzione; non aver paura di lui", De 18:22.
Ciononostante, la storia di Giona e ci insegna che la preghiera e il ravvedimento possono allontanare i giudizi di Dio e, quindi, rendere nulle determinate profezie di morte e distruzione; infatti, Dio è disposto a perdonare chi si allontana dalle proprie vie malvagie (2Cronache 7:14-13). Allora come si fa a capire se il messaggio viene da Dio o no?
In Deuteronomio 13, è scritto che il banco di prova è la conformità alla Sua Parola. Nel periodo della Legge, quando veniva proferito un messaggio contrario alle Scritture, il profeta o il "sognatore" doveva essere messo a morte.
E oggi? L'apostolo Paolo, prodigo di consigli di buon senso per la Chiesa, esorta i credenti a non disprezzare le profezie, e a "ritenere il buono" (1Te 5:20-21): questo implica che tutto ciò che non è conforme alla Bibbia va scartato risolutamente, ma anche che non si può screditare qualsiasi profezia solo perché può esserci qualche sbavatura.
Ad esempio, se qualcuno profetizza a un credente che Dio vuole mettere fine alle sue sofferenze, questa parola deve essere necessariamente circoscritta al problema presente, e non va intesa in senso assoluto, perché ciò non sarebbe in linea con la Parola.
Parliamo ora di pratiche che rasentano la stregoneria, come la "bibliomanzia" o l'abuso segni e conferme da parte di Dio (inutile ricordare che la negromanzia e la magia sono peccati gravissimi). Dio non ci ha mai comandato di usare la Bibbia come le carte o i tarocchi, aprendola "a caso" per ricevere un messaggio ad hoc; allo stesso modo, non possiamo affidarci a qualsiasi fenomeno naturale scambiandolo per "segno". L'arcobaleno è un messaggio perpetuo di pace per l'umanità da parte di Dio, ma questo non significa che ogni singolo lampo, tuono, o, peggio, scia di scarico aereo sia un segno divino!
Gedeone chiese a Dio un segno di conferma solo dopo aver creduto nella Sua Parola, e, per avere la certezza che fosse proprio la Sua voce, ebbe il coraggio di chiedere anche il segno opposto (Gc 6:36-40).
Gesù, però, deprecò la pratica della richiesta di segni da parte degli increduli: "Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno, e segno non le sarà dato se non quello di Giona" (Mt 16:4); Lui non ha bisogno di convincere nessuno della propria deità, perché "senza fede è impossibile piacergli; poiché chi si accosta a Dio deve credere che egli è" (Eb 11:6).
Nessuna "scorciatoia" ci porterà a una maggiore conoscenza di Dio, ma solo uno studio serio, costante e approfondito della Sua Parola.
Dio ci benedica!

QUANDO UNA COPPIA SI CONSIDERA SPOSATA
E QUANDO NO?
La risposta è: dipende
- Dalle leggi del Paese in cui vivono quelle persone.
- Dalle usanze della società in cui vivono quelle persone.
Ma andiamo con ordine. Innanzitutto, che cosa NON è matrimonio, secondo la Bibbia?
· Non è la semplice relazione sessuale tra due persone. Paolo definisce i rapporti sessuali fuori dal matrimonio con il termine di "fornicazione", e non come atto costitutivo o premessa di un matrimonio (1Co 7:2).
· Non è la semplice convivenza tra un uomo e una donna, se non è sancita anche dall'unione intima (Genesi 2:24; Matteo 19:5; Efesini 5:31). Re Davide, fattosi anziano, dormiva con la Sunamita nello stesso letto, ma senza avere rapporti con lei: proprio per questo, i due non erano considerati sposati (1Re 1:1-4).
Allora qual è l'elemento indispensabile affinché un legame di coppia sia considerato matrimonio? La cerimonia?
No. Esistono culture in cui il matrimonio non è sancito da alcuna cerimonia. Nella Bibbia vediamo che Dio condusse Eva da Adamo, ed ella divenne sua moglie (Ge 2:22). Leggiamo che Isacco condusse Rebecca nella sua tenda, e furono considerati sposati (Ge 24:67). Nel caso di Sansone, invece, che sposò una donna filistea, i festeggiamenti andarono avanti per sette giorni, ma non è specificato se ci fosse stata o meno una cerimonia (Gc 14); anche Gesù partecipò a una festa nuziale (Gv 2), ma non viene menzionato altro. Evidentemente, la cerimonia non è l'elemento cardine del matrimonio.
In base a quanto letto, invece, sembra molto chiaro che la condizione principale del matrimonio sia l'ufficialità del patto tra l'uomo e la donna, ovvero il riconoscimento di esso da parte di tutta la comunità, che avviene secondo la cultura e le usanze condivise. Nel caso di Adamo ed Eva, è scritto che Dio stesso stabilì il loro matrimonio, perché erano, letteralmente, soli al mondo; ma Isacco prese Rebecca come moglie perché i suoi genitori si erano accordati con la loro piccola comunità che Isacco avrebbe sposato una donna presa dal parentado di Abramo ("ma andrai al mio paese e al mio parentado a prendere una moglie per mio figlio, per Isacco", Ge 24:4); i festeggiamenti nuziali, in tal senso, pur non essendo necessari, sono rappresentativi del fatto che tutta la comunità è testimone del patto matrimoniale. In altre parole, il rito esprime la presa di coscienza collettiva dell'evento.
Possiamo anche aggiungere il seguente corollario: non solo la comunità riconosce l'avvenuto matrimonio, ma si aspetta, implicitamente, che gli sposi rispettino il patto secondo quelle che sono le regole da essa stabilite. Diversamente, che sia stato prodotto o meno un qualche certificato, il patto si considera rotto.
Questo cosa vuol dire? Che in un determinato Stato sono validi tutti i tipi di matrimonio considerati tali dalle singole culture presenti in quel territorio?
No. Tra le usanze e la legge, ha precedenza la legge. Infatti, è scritto: "Ogni persona sia sottoposta alle autorità superiori, poiché non c'è autorità se non da Dio; e le autorità che esistono sono istituite da Dio. Perciò, chi resiste all'autorità, resiste all'ordine di Dio; e quelli che vi resistono attireranno su di sé la condanna", Rm 13:1-2. Non solo: ricordiamo che Gesù esortò a non utilizzare la tradizione per trasgredire la Parola (Mt 15:39).
Facciamo qualche esempio. La poligamia è legale in alcuni Paesi, ma in altri no; questo vuol dire che, se il poligamo si trasferisce in un Paese che non ammette la poligamia, dovrà adeguarsi: solo la prima moglie sarà considerata legittima. Ancora: i nomadi riconoscono che è avvenuto un matrimonio quando inizia la convivenza; tuttavia, agli occhi dello Stato in cui risiedono, le coppie nomadi non sono considerate sposate se non effettuano almeno il rito civile, alla presenza delle autorità statali.
E se lo Stato è assente? In quel caso, prevalgono le usanze della comunità (che possono anche dar luogo a veri e propri codici di leggi).
Ricapitoliamo, ora, tutte le casistiche possibili.
1. Un uomo e una donna convivono, ma non hanno rapporti intimi. NON sono sposati.
2. Un uomo e una donna convivono e hanno rapporti intimi, con o senza figli, ma non sono legalmente sposati.
- Se vivono in uno Stato che regolamenta il matrimonio, NON sono sposati
- Se NON vivono in uno Stato che regolamenta il matrimonio, ma in una comunità che riconosce il loro tipo di unione, SONO sposati
- Se non sono riconosciuti né da uno Stato, né da una comunità, NON sono sposati: sono in adulterio
3. Un uomo sposa una seconda moglie legalmente in un paese che riconosce la poligamia, ma poi si trasferisce in uno in cui la poligamia è vietata. I due NON sono sposati.
Quest'ultimo caso è particolarmente controverso, perché si tratta di un matrimonio che Dio non riconosce. Infatti, agli occhi di Dio il matrimonio è valido anche se la coppia non è cristiana, ma a condizione che si tratti di un'unione monogama. Seppure molti patriarchi non si siano attenuti a questa indicazione, e Mosè sia stato costretto a regolamentare il divorzio, Gesù disapprovò questa attitudine, e specificò che "da principio non era così" (Mt 19:8).
Che cosa è, dunque, il matrimonio, secondo il progetto di Dio?
- È un patto fra un uomo e una donna, che Dio unisce in "una sola carne" (Ge 2:24), per camminare nella stessa direzione in base ai criteri da Lui stabiliti (Ef 5:24; 1Co 11:7).
- È un'assunzione pubblica di responsabilità; non solo verso il partner (Ef 5:25), ma anche verso i figli che verranno (1Tm 3:4), le rispettive famiglie, lo Stato (v. sopra) e, soprattutto, Dio (1Pt 3:7).
Quando la Chiesa viene definita "sposa" di Cristo, infatti, è perché Cristo si è assunto delle responsabilità ben precise verso di lei: l'ha riscattata a prezzo del proprio sangue, le ha offerto pastura, ammaestramento, guida, conforto, riprensione, ma, soprattutto, si è incaricato della sua santificazione.
Il matrimonio secondo Dio è, in altre parole, imitazione dell'amore incondizionato tra Cristo e la chiesa: un amore fatto di impegno, responsabilità e dedizione reciproca.

DIVORZIO E NUOVE NOZZE:
QUANDO E' POSSIBILE?
Prima di rispondere, vogliamo specificare che in questa sede non intendiamo indirizzare il credente a regolarsi in un modo piuttosto che in un altro, né mettergli pesi o pressioni di varia natura, in base a ciò che riteniamo giusto: non siamo stati chiamati a questo.
Pertanto, il nostro compito sarà, come sempre, quello di cercare di far luce sul consiglio della Parola, nella speranza che il nostro contributo possa aiutare qualcuno che ne ha bisogno.
Veniamo a noi. Gli studi sull'argomento non mancano, per cui cercheremo di focalizzarci solo sul necessario, facendo le necessarie premesse.
La Parola afferma chiaramente che Dio odia il divorzio (Malachia 2:16), perché esso mina l'unità del matrimonio (Genesi 2:24; Matteo 19:5; Efesini 5:31), che, a sua volta, rappresenta l'unione intima tra Cristo e la Chiesa (Cantico dei Cantici). Nel progetto di Dio non esiste la divisione, che è un'opera della carne, e non dello Spirito (Ga 5:19); lo stesso Cristo è unito al Padre (Giovanni 17:10-11;21), e si aspetta una Chiesa unita in Lui (Gv 17:11;21).
Chiarito il principio teologico per cui Dio non ha previsto il divorzio, dobbiamo, però, specificare, che la Parola ammette che esso possa verificarsi, e, quindi, fornisce delle direttive in merito.
!!! Attenzione. La criticità più grande non riguarda il divorzio in sè, ma la possibilità di contrarre un nuovo matrimonio. Questa evenienza, e cioè le nuove nozze, è ammessa solo in un caso, citato da Gesù in Matteo 19:8. Ma andiamo con ordine.
Esaminiamo le istruzioni di Paolo per le coppie sposate, in 1Corinzi 7:10-17: "10 Agli sposati invece ordino, non io ma il Signore, che la moglie non si separi dal marito, 11 e qualora si separasse, rimanga senza maritarsi, o si riconcili col marito. E il marito non mandi via la moglie. 12 Ma agli altri dico io, non il Signore: se un fratello ha una moglie non credente, e questa acconsente di abitare con lui, non la mandi via. 13 Anche la donna che ha un marito non credente, se questi acconsente di abitare con lei, non lo mandi via, 14 perché il marito non credente è santificato nella moglie, e la moglie non credente è santificata nel marito, altrimenti i vostri figli sarebbero immondi; ora invece sono santi. 15 Se il non credente si separa, si separi pure; in tal caso il fratello o la sorella non sono più obbligati; ma Dio ci ha chiamati alla pace. 16 Infatti che ne sai tu, moglie, se salverai il marito? Ovvero che ne sai tu, marito, se salverai la moglie? 17 Negli altri casi, ciascuno continui a vivere nella condizione che Dio gli ha assegnato e come il Signore lo ha chiamato; e così ordino in tutte le chiese".
Esaminiamo tutte le casistiche citate dall'apostolo Paolo:
1. Due credenti si separano (v.10). SONO POSSIBILI LE NUOVE NOZZE?
NO. Paolo dice che, se non riescono a riconciliarsi, devono rimanere senza risposarsi (v.11).
2. Un credente vorrebbe separarsi dal coniuge non credente (vv.12-13). PUO' FARLO?
Il consiglio di Paolo ("io, non il Signore" v.11) è
a. NO, SE IL CONIUGE ACCONSENTE A STARE CON LUI, perché la testimonianza e la santità del credente possono portare l'altro alla salvezza (vv.13-14).
b. SI', SE IL CONIUGE NON ACCONSENTE A STARE CON LUI ("il fratello o la sorella non sono più obbligati", v.15). E' lo stesso caso in cui un non credente prenda l'iniziativa di voler divorziare (v.15).
IN QUEST'ULTIMO CASO, SONO POSSIBILI, PER IL CREDENTE, LE NUOVE NOZZE?
NO. Al di là della linea di Paolo, che è quella di cercare sempre il perdono e la riconciliazione (v.15), osserviamo il v.27: "Sei legato ad una moglie? Non cercare di esserne sciolto. Sei sciolto da una moglie? Non cercare moglie" e il v.39: "La moglie è vincolata per legge per tutto il tempo che vive suo marito; ma se il marito muore, essa è libera di maritarsi a chi vuole, purché nel Signore".
Dunque, l'uomo che è divorziato dalla moglie non deve cercarne un'altra e la donna non è libera di risposarsi se non quando muore suo marito.
E' da notare che Paolo, quando parla di coppie cristiane, specifica che si tratta di ordini del Signore (che, infatti, trovano conferma nelle parole di Gesù in Matteo 19), mentre, quando parla di coppie miste, afferma che il consiglio è il suo (v.11); questo elemento non rende la Parola meno valida: il consiglio di Paolo è il consiglio di Dio! Quindi, dobbiamo assolutamente interpretare le Parole pronunciate da Paolo come prescrittive.
Il motivo per cui Paolo specifica che il consiglio è il suo è che Dio non ha mai contemplato il matrimonio misto e, quindi, non lo ha regolamentato; tuttavia, succedeva, nella chiesa primitiva come in quella odierna, che una persona si convertisse e il coniuge no, e allora si doveva gestire il caso.
!!! Attenzione. Non è previsto, invece, che una persona già credente scelga di sposarne una non credente: infatti, la mancanza del Signore come base della coppia non garantirebbe la riuscita dell'unione. Vogliamo anche sottolineare che il partner dovrebbe essere scelto in base all'evidenza di un'esperienza reale in Cristo, e non solo perché si autodefinisce cristiano/a e frequenta una chiesa. Seguendo questa linea, riusciremmo a prevenire la maggior parte degli eventuali problemi.
Ma, allora, alla luce di tutto ciò, QUANDO SONO POSSIBILI LE NUOVE NOZZE?
In Matteo 19:9, Gesù afferma: «Or io vi dico che chiunque manda via la propria moglie, eccetto in caso di fornicazione, e ne sposa un'altra, commette adulterio; e chi sposa colei che è stata mandata via, commette adulterio». In Marco 10:12, Gesù afferma che questo vale anche per la moglie che si comporta così.
Come si vede, l'affermazione di Gesù riguarda non solo il divorzio, ma anche il nuovo matrimonio. Parafrasando, potremmo dire: divorziare e risposarsi è sempre adulterio, tranne in caso di fornicazione di uno dei due. Addirittura, l'adultero espone all'adulterio altre due persone: il coniuge mandato via, per quanto innocente, se contrae nuove nozze, e la persona che si unisce a costui/ei. I farisei credevano di essere autorizzati alle nuove nozze utilizzando il libello di divorzio istituito da Mosè, ma Gesù spiegò che quello era semplicemente uno strumento per tutelare la donna da ogni insinuazione o accusa di colpevolezza (v.8). La verità era così dura che essi esclamarono che non conviene sposarsi (v.10), che poi è anche il consiglio di Paolo per "evitare tribolazioni nella carne"!
La fornicazione, ovvero l'impurità sessuale nelle sue varie forme (non solo tradimento, ma anche flirt, pornografia, ecc.), è l'unica condizione che può far considerare sciolto un matrimonio, e che può consentirne un altro. E' facile dedurne il motivo: l'unione intima tra due coniugi è il sigillo che garantisce l'effettività del matrimonio; se essa viene inquinata, il patto si considera rotto, e il coniuge leso è da ritenersi innocente. Ovviamente, la strada del perdono è sempre praticabile ed è da preferire.
La fornicazione è un peccato ad amplissimo spettro e quindi -ahimè- causa frequentissima di richieste di divorzio.
!!! Attenzione. Non è, quindi, la separazione ad essere considerata adulterio, ma il nuovo matrimonio (conseguente a divorzio), eccetto in caso di fornicazione: se accade questo, la parte offesa può risposarsi.
Adesso ci sembra il momento di fare una riflessione.
Nella maggior parte delle chiese cristiane si tende a tollerare le nuove nozze ormai in tutti i casi, anche se non ci sono le condizioni bibliche, considerando questa soluzione come "il male minore", per evitare che la persona commetta adulterio poiché "arde". A noi sembra che le parole di Gesù siano state chiare: se non sussistono i requisiti, sposarsi di nuovo è considerato sempre adulterio. Non intendiamo forzare la volontà di nessuno, ma neanche allontanarci dalla linea biblica.
A questo punto rispondiamo a un'altra domanda: IN CASO DI VIOLENZA FISICA, E' POSSIBILE SEPARARSI/DIVORZIARE E RISPOSARSI?
a. Separarsi. SI', è possibile, in base a quanto abbiamo letto in 1Corinzi 7:10.
b. Divorziare e risposarsi. SI', SE C'E' ANCHE FORNICAZIONE DEL PARTNER; NO, IN CASO CONTRARIO.
!!! Attenzione. La Parola invita i credenti a fare uso delle autorità di Chiesa per risolvere i problemi interni (Matteo 18:15-17), e delle autorità civili per risolvere i problemi con i non credenti (Romani 13:4). Questo significa che:
1. Se il marito violento è credente, posso chiedere l'aiuto del pastore e degli anziani, pregare con loro e cercare di ottenere un ravvedimento. L'ideale è sempre la riconciliazione, e Dio, che è "il terzo capo della corda" (Ec 4:12), lavora a questo scopo. Mai, quindi, stancarsi di intercedere presso Dio, e mai vergognarsi di chiedere aiuto alla chiesa! Se ci muoviamo secondo la Parola, otterremo le promesse che vi sono contenute.
2. Se il marito violento è non credente, e quindi non posso coinvolgere le autorità di chiesa, e in più non me la sento di coabitare con lui per cercare di guadagnarne la salvezza, la Parola mi autorizza a rivolgermi alle autorità secolari, che possono disporre un allontanamento forzato da casa. Non è cattiva testimonianza: è il mezzo che Dio ha scelto per tutelare me e la mia famiglia.
Speriamo di aver risposto in maniera esaustiva alle domande che ci sono state poste. Dio ci benedica!
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